Bruxelles, 29 novembre 2024 – Magro è bello. Difatti Ursula Gertrude Albrecht, più nota con l’aristocratico cognome da coniugata von der Leyen, non si è scomposta più di tanto per il viatico più risicato di sempre alla sua seconda squadra di governo. Certo non è il caso di toni trionfalistici. A detta però delle voci più informate di Bruxelles, la presidente della Commissione “avrà ancora più controllo su tutto”, come dice un alto funzionario. Von der Leyen ha insomma centrato il proprio disegno all’insegna del divide et impera inteso a rafforzare il dominio, anche tecnico, sulla squadra di governo e ad avere mani libere per utili alleanze parlamentari col settore a guida italiana della destra conservatrice di Ecr su questioni scottanti come la politica di difesa e il contrasto alle migrazioni.
Di contro, emergono le preoccupazioni legate precisamente alla “eterodossia politica delle maggioranze variabili rispetto alle grandi sfide che attendono l’Europa”, come osserva il politologo francese di adozione italiana Marc Lazar. Dal cambiamento climatico ai migranti, l’ipotesi è che von der Leyen si appoggi a destra. E che soprattutto non faccia emergere un disegno chiaro, nonostante la professata “bussola” del rapporto Draghi che implora di investire, con debito comune, nella decarbonizzazione e l’innovazione competitiva. Ma anche il rischio “sempre presente” di ripiegamento nazionalistico mette un po’ in allarme lo stesso Ppe.
Di certo non esiste più la “maggioranza Ursula”, che annoverava la destra polacca del Pis e i 5 Stelle, insieme a Popolari, Socialisti, Liberali e Verdi. Pis e 5 Stelle non sono più al governo, ma le destre sono avanzate fino a rappresentare nelle diverse declinazioni un quarto del Parlamento. Popolari e soprattutto socialisti da soli non dettano più legge come nei passati decenni. La segretaria del Pd Elly Schlein ammette infatti di non sentire propria la Commissione, pronta a valutarla passo passo.
Il quadro è frammentato come non mai. E lo si è visto nelle votazioni di ieri alle risoluzioni sulla guerra in Ucraina, che hanno preso più voti (390) di von der Leyen, ma hanno visto dividersi tutti i partiti. Salvo il Ppe, che – assistito dai liberali in declino – cerca di difendere con le unghie e con i denti una centralità ponendosi come argine di responsabilità ma dialogante rispetto alle istanze delle destre, ammesso che ci riesca. Difatti il leader Manfred Weber rivendica il lavorio per “una maggioranza che unisse l’arco parlamentare dai Verdi alla parte più ragionevole dell’Ecr” volta alla “stabilità”.
Ma la stabilità secondo Weber significa esattamente maggioranze variabili sui singoli dossier. “Era chiaro da dopo le elezioni”, spiega in proposito Federico Ottavio Reho, coordinatore della ricerca del Wilfried Martens Centre for European Studies, la fondazione del Ppe. Per il ricercatore i numeri parlamentari sono in realtà “sotto controllo”. Le defezioni dei popolari spagnoli sono infatti legate al rischio di elezioni anticipate, come quelle dei socialisti tedeschi riguardano il prossimo voto di febbraio. Ciò non toglie che “il rischio di ripiegamenti nazionalistici è sempre presente” e tanto più pericoloso di fronte alle sfide che si porranno con l’avvento dell’amministrazione Trump in Usa.
E allora si tratterà di vedere se von der Leyen sarà capace di imporsi rispetto al manifesto sprezzo del presidente nei riguardi dell’Europa che considera come una sorta di gioco di società burocratico. Intanto lei si è imposta eccome sulla Commissione e sui palazzi. Ha giocato un tiro mancino alla Francia di Macron per togliersi di torno il sussiegoso Thierry Breton, lasciando il successore con poteri ridotti. Ha ingigantito il peso e gli incarichi dei Paesi baltici in funzione anti Putin. Ha affidato alla socialista spagnola Teresa Ribera il ruolo di numero due, indigesto ai Popolari, ma anche consolidato l’egemonia del Ppe dell’amico/nemico Weber. Che ora guarda alle elezioni in Germania per incrementare il numero dei governi a guida popolare.