Roma, 7 aprile 2019 - L’Italia trema. Secondo informazioni non confermate dall’azienda, Eni, d’intesa con la Farnesina, avrebbe evacuato il (poco) personale italiano e non libico dal giacimento di Wafa, in Tripolitania, e in quello di El Feel, a sud. Lo stesso avrebbero fatto altre aziende. "La situazione nei campi petroliferi è sotto controllo e stiamo monitorando l’evolversi della vicenda con molta attenzione", dicono in Eni. E la preoccupazione non è solo per le tensioni in atto, ma per quello che potrebbe succedere.
La Libia è la nostra proiezione strategica in Africa, essenziale per i nostri interessi energetici e per il controllo dei migranti. L’Italia è storicamente il primo partner di Tripoli, ma dopo la dissennata guerra in Libia e il cambio di regime tutto è tornato in discussione, con la Francia a fare da nostro competitor. L’Italia, appoggiando l’esecutivo di Fajez Sarraj, promosso dall’Onu, ha fatto una scommessa su un cavallo debole, ma che sinora è il governo riconosciuto dalla comunità internazionale. L’arrivo di Haftar, ex protegé della Cia oggi sponsorizzato da Francia, Arabia Saudita, Egitto, Russia ed Emirati, rischia di essere per noi un disastro strategico, nonostante da tempo la nostra diplomazia cerchi di riequilibrare la nostra posizione. L’interscambio tra Italia e Libia vale oggi 4 miliardi di euro. Il cuore sono le importazioni di gas e di petrolio ed Eni è il player chiave. L’attività è condotta su una superficie complessiva di 24.673 chilometri quadrati e produce oggi 280mila barili equivalenti (soprattutto gas) al giorno, meno dei 384mila del 2017 (record storico), ma con ampi margini di crescita. Nel 2018 è stato finalizzato un accordo con la società di stato Noc e gli inglesi Bp per l’assegnazione a Eni di una quota del 42,5% nell’Exploration and Production Sharing di Bp per accelerare la messa in produzione delle riserve. Nel corso del 2018 le attività di sviluppo hanno riguardato l’avvio produttivo del progetto offshore Bahr Essalam fase 2 (Eni 50%); il potenziamento degli impianti di trattamento gas nell’area di Mellitah (Eni 50%) e Sabratha (Eni 50%); e l’avvio di un programma di ottimizzazione della produzione del giacimento di Wafa (Eni 50%).
C’è poi il gasdotto Greenstream, lungo 520 chilometri, che collega l’impianto di trattamento di Mellitah sulla costa libica con Gela in Sicilia. La capacità del gasdotto ammonta a circa 8 miliardi di metri cubi/anno. L’approvvigionamento di gas naturale in Libia nel 2017 è stato pari a 4,76 miliardi di metri cubi. Le attività Eni in Libia sono regolate da contratti che hanno durata fino al 2042 per le produzioni a olio e al 2047 per quelle a gas. Con un governo Haftar, questo accordo potrebbe essere messo in discussione, come potrebbero cadere nel dimenticatoio i crediti vantati da 130 aziende italiane e che ammontano ad almeno 900 milioni di euro. Ma la Libia è essenziale anche per la questione migranti. Prima con l’opera del ministro dell’Interno Marco Minniti e poi con quella del suo successore Salvini, l’Italia ha investito molti soldi per addestrare e dotare di mezzi la Guardia Costiera libica e per finanziare alcune milizie, "riqualificandole" nel contrasto ai flussi migratori. L’Oim stimava a dicembre 2018 la presenza in Libia di 623.529 migranti, 434.391 dei quali provenienti dall’Africa subsahariana. Si stima che un terzo, circa 200 mila, vorrebbe arrivare in Europa. Un governo quantomeno non amico, come quello di Haftar, potrebbe fare come Erdogan e aprire o chiudere il rubinetto a piacere, così da ottenere forti compensazioni economiche.