Le massicce proteste popolari di sabato, con attacco a 3 ministeri, hanno fatto 1 morto e 730 feriti. E sono continuate ieri. Nel mirino il governo e la componente sciita Hezbollah. "Sul piano interno libanese – osserva Valeria Talbot dell’Ispi – il disastro del 4 aprile ha rilanciato con forza la protesta, che non si era fermata neanche in piena emergenza Covid-19. Il governo ha promesso elezioni entro sei mesi per tentare di tamponare il malcontento. Ma visto il sistema elettorale, concepito per mantenere un equilibrio tra le varie componenti etnico-settarie, è difficile che si arrivi a un cambio dei rapporti di forza. Essenziale sarà capire se verrà confermato il ruolo di Hezbollah. Tra i freni al cambiamento anche il fatto che le proteste, per quanto ampiamente condivise dalla popolazione, hanno rivendicazioni generiche e troppo ambiziose e sono senza un leader, o, meglio, un leader per ogni componente etnica, che possa candidarsi e vincere le elezioni e poi tentare di cambiare il Paese. Il rischio è che si dimetta il governo e ne venga eletto un altro prigioniero degli opposti veti delle diverse componenti senza che cambi nulla.
Incidente o bomba? Il dubbio resta
Incidente per grave negligenza o azione deliberata? Il presidente libanese Michel Aoun ha ribadito che "la causa dell’esplosione a Beirut è ancora sconosciuta e c’è la possibiltà dell’intervento esterno attraverso una bomba o un missile". Ue e Usa hanno chiesto un’inchiesta indipendente. La Francia la vorrebbe internazionale. Ma il presidente Aoun si è detto contrario a un’inchiesta internazionale "perchè rischierebbe di annacquare la verità". In realtà, è vero l’esatto opposto. Non a caso anche il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, negando coinvolgimenti, ha però respinto l’ipotesi di un’inchiesta internazionale. La verità è affare tra libanesi.
Dove trovare i finanziamenti che servono?
L’Onu stima in 117 milioni di dollari nei prossimi tre mesi il fabbisogno del Libano. La Conferenza dei paesi donatori, riunitasi ieri si è detta pronta ad aiutare: i circa 30 Paesi (tra i quali Ue, Usa, Cina, Uk, Russia e paesi del Golfo) hanno stabilito che "la loro assistenza al Libano verrà coordinata dall’Onu e fornita direttamente alla popolazione con la massima efficacia e trasparenza» ma hanno chiesto «riforme tempestive". L’Ue ha promesso 63 milioni di euro, la Francia e il Quatar 50, la Germania 20, gli Usa 15 milioni.
Stato fallito, incubo da evitare
Il rischio che lo Stato fallisca è incombente. "Il Libano – ha avvertito il ministro degli Esteri Nassif Hitti, dimettendosi – sta diventando uno stato fallito. Se i contradditori attori che agiscono nel Paese non riusciranno a trovare un accordo, la barca affonderà, con tutti dentro". Il Paese affronta le peggiore crisi economica dalla guerra civile. Il debito vale il 170% del Pil, la sterlina locale è precipitata dell’80% dalle proteste di ottobre a oggi. E a marzo, quando il Libano avrebbe dovuto rimborsare bond europei per 1,2 miliardi di dollari, il premier Assan Diab ha annunciato il default e l’avvio di negoziati per ristrutturare il debito.
Che accadrà all'export dell'Italia?
Una ricerca condotta da Cnr-Ircres mostra che le esportazioni italiane verso il Libano sono concentrate (82,6%) nel trasporto via mare e con la devastazione del porto di Beirut questo non potrà non avere ripercussioni. Il settore potenzialmente più colpito è quello della raffinazione petrolifera (che vale 489 milioni di euro), a cui seguono i tipici prodotti del made in Italy (macchinari, che valgono 191 milioni, e poi chimica, alimentari e arredamento). La localizzazione delle raffinerie determina che le regioni più coinvolte siano Sardegna (21.1%) e Sicilia (19%), a cui seguono le aree dei distretti industriali lombardi (15.2%), veneti (11.4) ed emiliano romagnoli (9,7%). Anche se gli scambi con il Libano non sono particolarmente intensi (1,2 miliardi di euro di esportazioni dall’Italia e solo 40 milioni di euro di importazioni). Si teme un dimezzamento, almeno nei primi mesi. Il governo libanese punta a dirottare buona parte delle importazioni nello scalo di Tripoli, 80 km a nord, che è stato potenziato dai cinesi ed è adeguato per i container ma sembra sottodimensionato per i prodotti petroliferi. La Turchia ha messo a disposizione il porto di Mersin.