Lunedì 24 Febbraio 2025
ERMELINDA CAMPANI
Esteri

Le Big-tech strizzano l’occhio a Trump. E la Silicon Valley sogna il rilancio

Da Altman agli altri colossi dell’industria: "Ventata d’aria fresca, il rapporto con Washington è cambiato". Ma preoccupa la raffica di decreti esecutivi del tycoon: università e centri di ricerca temono tagli .

Una manifestazione di dipendenti governativi nei pressi del Campidoglio

Una manifestazione di dipendenti governativi nei pressi del Campidoglio

L’America della seconda presidenza Trump è più divisa che mai. Le strade della Silicon Valley, tradizionalmente roccaforte di progressismo e innovazione, sono oggi un crocevia di tensioni politiche che rispecchiano la spaccatura del Paese. Coloro che hanno votato per Donald Trump (e ce ne sono anche qui) applaudono l’esercizio di democrazia e la rapidità con cui il nuovo mandato presidenziale sta portando avanti le promesse della campagna elettorale. E sembra sempre pù evidente che ai fondatori delle grandi tech companies, qui a Palo Alto, il tycoon proprio non dispiace. Il clima tra di loro è di grande ottimismo, come ha riassunto bene Sam Altman di OpenAI a margine del summit di Parigi. Del tutto imperturbato, nonostante gli scambi al vitriolo con Elon Musk, Altman ha fatto sapere che, da quando Trump è in carica, il rapporto con Washington è cambiato. Ha parlato di un "vibe shift", come a dire che è cambiata aria, e che è arrivata una ventata di aria fresca.

Nel frattempo, a sparigliare le carte ci ha pensato anche Steve Bannon che, in una intervista sul New York Times, si è scagliato contro Musk e i tecnocrati ora amici di Trump. Li ha chiamati tecno-feudatari, evocando quindi l’idea di una società piramidale, di un approccio dogmatico al sapere, e suggerendo che sta per schiudersi un periodo di oscurantismo culturale e sociale a beneficio esclusivo della tecno-oligarchia.

Ma qui, come nel resto del Paese c’è anche un’altra America. È quella schierata a fianco del fronte di resistenza, guidato da giudici federali e da governatori democratici, che cerca di arginare il flusso di ordini esecutivi che si susseguono a ritmo serrato. Proprio negli ultimi giorni, su impulso di Letitia James, procuratrice generale di New York, un giudice federale ha emesso un’ordinanza per limitare, almeno temporaneamente, l’accesso di Musk e dei suoi ai sistemi di pagamento e ai dati del Dipartimento del Tesoro, sostenendo che vi fosse un rischio di "danno irreparabile".

Questa è solo l’ultima di una serie di azioni legali che tentano di mettere un freno agli ordini esecutivi di Trump che, secondo i detrattori, starebbe bypassando il Congresso e le istituzioni di controllo. E i settori rivoluzionati sono già tanti. Riguardano la cultura, i temi Dei (diversità, equità e inclusione), le questioni di genere (la Ncaa che governa tutti gli sport universitari, ha già dato seguito al mandato presidenziale per cui nessun atleta trans potrà competere come donna), e gli scenari internazionali (i dazi, Gaza, il canale di Panama).

Ai radicali cambiamenti di rotta non sono immuni nemmeno le grandi Università e i centri di ricerca. Sono in attesa di capire se i tagli minacciati dal governo federale verranno applicati. Se così fosse, sarebbe un vero disastro. L’ampiezza e la velocità del cambiamento stanno riorientando (e disorientando) l’America e l’ordine globale. Per molti imprenditori e investitori, la domanda chiave è se il nuovo corso porterà stabilità o caos. Per tanti cittadini, invece, l’incertezza riguarda il posto di lavoro e l’accesso alla sanità. E per gli immigrati senza documenti, che pure vivono e lavorano qui, la questione è come tenere un profilo il più basso possibile per scongiurare il rischio di essere rimpatriati. In tanti hanno smesso di andare al lavoro e non mandano più i figli a scuola. Il più grande sindacato degli insegnanti di Dallas, ad esempio, in queste ore segnala il caso non isolato di una scuola superiore della zona, in cui 900 studenti, quasi la metà degli iscritti, non si presentano più a lezione. Nel frattempo, nel centro di Palo Alto tutto continua con il solito ritmo. E il dato di gennaio dell’inflazione, che con un 3% ha determinato un aumento dei prezzi al consumo, certo non preoccupa i miliardari che vivono qui. La fede nelle magnifiche sorti e progressive è più che mai salda.