DIETRO la scritta «Non in mio nome», ieri sono scesi in piazza circa 4mila musulmani italiani per dissociarsi dalle violenze dell’Isis. Lo 0,3% del totale. Evitiamo inutili polemiche. Diamo dunque per scontato che solo una minoranza dei musulmani inclini al terrore o abbia simpatie nei confronti del Califfato islamico. Ma è una minoranza consistente; troppo consistente per pensare che le forze dell’ordine possano tenerla sotto controllo. Dei 6 milioni di credenti in Allah che risiedono in Francia, le autorità ne considerano pericolosi 11mila. Li conoscono tutti, ma ciò non è servito a scongiurare l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo né i massacri della scorsa settimana. Pubblichiamo oggi un sondaggio da cui risulta che il 12% dei musulmani legalmente presenti in Italia rifiuta in radice la nostra cultura e giustifica gli attentati di Parigi. Questo non fa di loro degli assassini, ma dei probabili fiancheggiatori o dei potenziali terroristi. Al netto degli irregolari, significa che le istituzioni italiane consentono a 180mila possibili tagliagole di vivere legalmente nel nostro Paese. Poiché il governo Renzi rifiuta di considerarsi in «guerra», è inutile ipotizzare misure straordinarie. Sono tutti innocenti fino a prova contraria. Inutile dire che i rischi di una simile politica sono alti.
SI PUÒ solo sperare che i musulmani «buoni» collaborino con le istituzioni, segnalando e denunciano i musulmani «cattivi». A oggi, l’intelligence racconta che la collaborazione è minima. Ma il tempo dell’ambiguità è finito, occorre un salto di qualità, una presa di coscienza. La follia del Califfato sunnita è una degenerazione dell’Islam come le Brigate Rosse furono una degenerazione del comunismo. Ma per anni il Pci rifiutò di ammetterlo. Così come oggi gli imam «buoni» sostengono che al-Baghdadi non abbia nulla a che vedere con il Corano, nei primi Anni Settanta i vertici del Pci e quelli della Cgil attribuirono la paternità del brigatismo all’estrema destra o agli apparati deviati dello Stato. «Le sedicenti Brigate rosse», dicevano.
LA PRESA di coscienza fu lenta, graduale. Favorita da un articolo di Rossana Rossanda, che, analizzando un volantino brigatista, la mise così: «Chiunque sia stato comunista negli Anni Cinquanta riconosce d’un colpo il linguaggio della Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia...». La famiglia in questione era quella del Pci. Completare la Resistenza realizzando il comunismo era infatti l’obiettivo dei brigatisti e i toni paternalistici che allora gli venivano spesso riservati («sono compagni che sbagliano») fecero sì che per anni il Pci e l’intellighenzia comunista rappresentarono un perfetto brodo di coltura del terrorismo. In quegli anni plumbei, l’intelligence americana stimò in 600mila i fiancheggiatori delle Br. «Il numero dei nostri militanti – osservò uno dei capi, Mario Moretti – è sempre stato relativo, quello che cresceva era la nostra influenza».
ECCO , se vogliamo evitare che, forte dei suoi successi «militari», lo Stato islamico acquisisca un’influenza crescente sui musulmani della porta accanto, sarebbe opportuno che i rappresentanti dell’Islam in Italia non si limitassero a una passeggiata solidale all’indomani di ogni strage, ma collaborassero fattivamente con le forze dell’ordine. Possibilmente ammettendo che l’Isis fa parte del loro album di famiglia.