A New York Israele ritira a sorpresa l’ambasciatore alle Nazioni Unite, al Cairo non partecipa alle trattative perché irritata dalle pretese eccessive di Hamas. E così il clima diplomatico si fa se possibile più teso e la possibilità di una tregua si allontana.
Il disperato tentativo di Egitto, Qatar e Stati Uniti di trovare un accordo prima dell’avvio del Ramadan, il 10 marzo, sta scontrandosi con la rigidità e le richieste delle parti in causa, Israele ed Hamas. Al Cairo i colloqui proseguono nonostante l’assenza della delegazione israeliana.
Secondo la tv satellitare al-Arabiya, Hamas pretende "prima dell’inizio del mese sacro del Ramadan" una "risposta definitiva" da Israele sulle sue richieste, ribadendo che vuole anche "un piano chiaro per il rientro, senza restrizioni, degli abitanti del nord della Striscia di Gaza" e che "non intende procedere con nessuno scambio di prigionieri se non verrà annullata l’operazione militare a Rafah". Il che, se fosse confermato, sarebbe un passo in avanti non da poco, perché sinora Hamas chiedeva un ritiro definitivo degli israeliani da tutta la Striscia, condizione chiaramente irricevibile per Gerusalemme.
La proposta in discussione è quella di un cessate il fuoco di circa 40 giorni, durante i quali i militanti rilascerebbero circa 40 degli oltre 100 ostaggi ancora trattenuti nella Striscia di Gaza, in cambio di circa 400 prigionieri nelle carceri israeliane e di un aumento significativo degli aiuti umanitari. Fin qui c’è una intesa di massima, il problema è il resto: la richiesta israeliana di sapere quanti ostaggi sono vivi e soprattutto le pretese di Hamas sul ritiro degli israeliani.
In un’intervista pubblicata ieri, un alto esponente di Hamas ha dichiarato alla Bbc che l’organizzazione non può fornire a Israele un elenco degli ostaggi viventi perché essa stessa non sa chi sia vivo e dove si trovino tutti gli ostaggi. "Tecnicamente e praticamente – ha detto Basim Naim, membro del Politburo – è ora impossibile sapere esattamente chi è ancora vivo e chi è stato ucciso dai bombardamenti israeliani o dalla fame a causa del blocco israeliano. Comunque un accordo senza la fine della guerra e il ritiro completo dell’Idf da Gaza". E se fosse così, saremmo in alto mare.
Ieri in Israele e non solo aveva fatto molto rumore la notizia pubblicata dalla tv israeliana Channel 14, e subito rilanciata dai media arabi, di dimissioni in massa dall’ufficio pubblica informazione dell’esercito israeliano. Se ne sarebbero andati il portavoce delle Forze di difesa israeliane Daniel Hagari, e molti altri funzionari. Ma l’esercito israeliano ha negato la circostanza, definendola "falsa", Channel 14 ha ritirato la notizia e così ha fatto l’emittente panaraba al Jazeera.
Densa di conseguenze diplomatiche e ben inserita in un confronto da mesi durissimo con il Palazzo di vetro c’è poi la notizia del ritiro dell’ambasciatore. "Ho ordinato al nostro ambasciatore all’Onu, Gilad Erdan – ha detto il ministro degli Esteri Israel Katz – di tornare in Israele per consultazioni immediate riguardo al tentativo di tenere nascosto il rapporto dell’Onu sugli stupri di massa commessi da Hamas e dai suoi sostenitori il 7 ottobre". Da notare che un team di esperti delle Nazioni Unite riferisce che "ci sono fondati motivi per ritenere" che i militanti di Hamas "abbiano perpetrato violenze sessuali, inclusi stupri e stupri di gruppo", durante l’assalto del 7 ottobre nel sud Israele. "Il segretario generale dell’Onu – ha proseguito Katz – non ha ordinato la convocazione del Consiglio di sicurezza per dichiarare Hamas un’organizzazione terroristicai". Il clima resta rovente con Israele che ieri ha accusato l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, di avere tra i suoi collaboratori a Gaza "più di 450 terroristi" e l’Unrwa, che, di contro, ha dichiarato che le autorità israeliane hanno torturato alcuni membri del suo staff durante gli interrogatori.
E tesa è la situazione in Libano. Hezbollah si dice "pronto a ogni scenario di guerra con Israele", mentre sono in corso trattative tra l’inviato Usa, Amos Hochstein, e gli alleati libanesi del Partito di Dio, mentre lo scambio di fuoco tra lo Stato ebraico e il movimento armato sciita ha registrato ieri una nuova escalation. Quattro persone sono rimaste uccise sui due lati della linea di demarcazione: tre nel sud del Libano e uno in Alta Galilea.