Domenica 6 Ottobre 2024
ALESSANDRO FARRUGGIA
Esteri

La nipote degli italo-israeliani uccisi nel kibbutz: "Li hanno messi al muro e fucilati"

Nove familiari di Shira Avron sono stati rapiti e portati a Gaza, altri tre eliminati: “Fra le vittime anche Eviatar Kipnis e la moglie Lilach, erano brava gente, volevano la pace coi palestinesi"

Roma, 8 ottobre 2024 – "Noi siamo gente di pace, mio nonno è sopravvissuto all’Olocausto e ha costruito con le sue mani il kibbuz Be’eri. Da sempre abbiamo amici palestinesi, che sappiamo ben distinguere dai terroristi di Hamas, non c’è mai stato odio. Be’eri era una comunità di pace e condivisione, ispirata al socialismo. Ma quel 7 ottobre l’orrore ci ha travolti. Travolti senza un perché. Nove miei familiari sono stati rapiti e portati a Gaza e altri tre, due zii e una zia, sono stati uccisi durante l’assalto al kibbuz, assieme al badante filippino di mio zio. Li hanno letteralmente messi al muro e fucilati. Non gli importava che uno fosse su una carrozzina a rotelle: per loro erano solo degli ebrei. Vittime di pogrom, ancora". Parla di getto, senza prendere fiato Shira Havron, 28 anni, studentessa di cinema a Tel Aviv, che da un anno ha una sola missione: far liberare tutti i suoi familiari finiti nella mani dei terroristi.

Eviatar Kipnis, l’italo-israeliano ucciso a 65 anni
Eviatar Kipnis, l’italo-israeliano ucciso a 65 anni

Che ne è stato dei suoi familiari presi prigionieri?

"Quelli presi in ostaggio hanno vissuto per cinquanta giorni nelle mani di Hamas, e poi per fortuna sono stati tutti liberati, tutti tranne mio cugino Tal: hanno rilasciato sua moglie Adi e i loro figli, Naveh, di 9 anni e Yula di tre, ma lui è sempre prigioniero. I bambini non riescono a farsene una ragione".

Due dei tre suoi parenti uccisi erano di origine italiana e cittadini italiani, giusto?

"Si, Mio zio Eviatar “Tari“ Moshe Kipnis e sua moglie Lilach. Erano brava gente, che voleva solo la pace con i palestinesi, la coesistenza. Mio zio aveva una malattia autoimmune che lo aveva messo su una sedia a rotelle, per questo aveva un badante. Ma anche malato, era sempre a disposizione degli altri e mia zia, sua moglie, che è poi la sorella di mio padre, lavorava con le comunità colpite da stress di guerra. Un lavoro enorme di assistenza psicologica. Tutto cancellato".

I suoi parenti che sono stati liberati, cosa le raccontano dei mesi in cattività?

"Che è stato un orrore sin dall’inizio. I terroristi di Hamas li hanno trovati nascosti nel rifugio. Hanno provato ad abbattere la porta ma era blindata. Allora hanno preso un bulldozer e hanno letteralmente strappato le finestre e le grate e sono riusciti ad entrare dentro mentre loro gridavano con quanto fiato avevano in gola. Sotto la minaccia delle armi li hanno portati a Gaza, con le mani alzate, come i nazisti facevano con gli ebrei durante l’olocausto. Una volta nella Striscia li hanno passati ad altri, con i quali hanno cambiato diversi nascondigli. Gli uomini da una parte e le donne e i bambini da un’altra. Anzi i terroristi hanno preso i due bimbi di Tal e Ai e li hanno letteralmente strapparti dalle mani di mia cugina. Ma mia cugina, rischiando di farsi uccidere, si è gettata sui figli e ha convinto i rapitori a lasciarli con lei".

Sono stati maltrattati durante la prigionia?

"Le condizioni erano molto dure. Poco cibo, freddo, una doccia con l’acqua gelata ogni tanto. Erano cronicamente malnutriti, ridotti a pelle e ossa. Traumatizzati fino al midollo. Non potevano parlare a voce normale, gli era vietato, e così si sono abituati a bisbigliare. E hanno continuato a farlo anche dopo la loro liberazione, da tanto che erano psicologicamente feriti. Quando li abbiamo rivisti non servivano parole per capire. Potevi vedere sul loro volto quello che hanno dovuto passare. Come per i sopravvissuti all’Olocausto, i loro corpi gridavano l’orrore. Una di loro mi ha detto: cercavamo di tenerci occupati con qualsiasi cosa, anche spostare i sassi del cunicolo, pur di non pensare, pur di non impazzire. La famiglia ora sta assieme tutto il tempo che può. Essere vicini è la migliore cura. Le loro sono vite profondamente ferite. Viviamo come in un universo parallelo".

Sapete se suo cugino Tal è ancora vivo?

"Non sappiamo nulla. Un ostaggio liberato ha detto che a novembre era ancora vivo. Da allora, niente. La sola cosa che conta adesso è raggiungere una tregua per riportare a casa chi è ancora prigioniero, perché questa guerra deve finire, per noi e pure per i palestinesi. Prima cosa la tregua e liberazione degli ostaggi e poi si, possiamo anche ragionare su un processo di pace che porti alla soluzione a due Stati. Ci vorrà tempo, lavoriamoci. Ma ora basta dolore, abbiamo già sofferto troppo".