Mosca, 23 luglio 2017 - «Le leggi della vita non sono chiare come quelle degli scacchi. Al livello più alto, gli scacchi sono un talento per controllare cose prive di relazione. È come governare il caos». Lo scrive nel libro Gli scacchi, la vita. E forse per questo Garry Kasparov, l’orco di Baku, il più forte di sempre, torna a competere dopo 12 anni di latitanza. È il suo modo di ridare speranza a un mondo lanciato verso l’entropia. E magari tirare su qualche dollaro. Si era ritirato nel 2005. Tre anni dopo eccolo candidato alle presidenziali russe. Ma nel 2013 aveva preso la decisione di non tornare a casa: «Ho incontrato abbastanza colonnelli del Kgb nella mia vita». Boris Spassky, il collega campione del mondo dal 1969 al ’72, riteneva quello di Kasparov un modo politico di giocare: «È uno scacchista aggressivo, ha sempre preso lui l’iniziativa».
Lo fa anche stavolta rimettendosi in pista nel torneo Rapid and Blitz di St. Louis, nel Missouri, dal 14 al 19 agosto, una costola della famosa Coppa Sinquefield foraggiata dal magnate statunitense Rex. A 54 anni Kasparov sfiderà i top player Caruana, Nakamura, Navara e l’indiano Anand, il più vecchio con i suoi 47 anni. Non ci sarà il nuovo fenomeno Magnus Carlsen, ma a fare pubblicità all’evento basterà lui, che con finta modestia ha twittato: «Sono pronto a vedere se mi ricordo come si muovono i pezzi. Se non ce la faccio sarò in grado di annunciare il mio ri-ritiro?».
Kasparov è l’adattamento del nome della madre, Klara Kasparian. Garyk Weinstein nasce in Azerbaigian nel ’63. Dentro l’allora impero sovietico non è un buon viatico avere due genitori così: ingegneri, uno ebreo e l’altra armena. È però la condizione ideale per diventare allergico al potere, macinare idee eretiche e scivolare nella vita come bambino prodigio. A 4 anni sa leggere e conosce l’aritmetica, da ragazzino è capace di memorizzare e poi elencare 100 targhe di automobili. Impara a giocare a scacchi dal padre, che muore in un incidente stradale quando ha 7 anni. Prima però fa in tempo a risolvere un problema su cui anche il talento di mamma si era arreso. A 11 anni gioca il campionato di Baku riservato agli adulti, a 14 è maestro, a 17 vince il mondiale under 20. A 22 anni è campione del mondo a Mosca. In uno scontro leggendario che dura quasi 6 mesi riesce a battere Anatolij Karpov, massima espressione del regime sovietico, ma la federazione internazionale decide di annullare la partita. È chiaramente una sfida metaforica: Kasparov filo Gorbaciov e perestrojka, Karpov alter ego di Breznev. «Gli scacchi – scrive – ci insegnano il potere del ‘perché?’ in modo molto chiaro. Se non ci si interroga sulla ragione di ogni mossa si finirà per perdere contro qualsiasi giocatore applichi un piano coerente». Quando gli uomini non gli bastano più sfida i computer. Storica la sfida del ’96 contro Deep Blue, programma scacchistico della Ibm, vinta con il punteggio di 4-2 (ma perderà nel 1997).
Lo definiscono mammone, vorace, veloce e per niente diplomatico. Lui definisce gli scacchi lo sport più violento che esista, molto più vicino alla boxe che a un passatempo. Svanita l’Urss c’è un altro nemico formidabile ad aspettarlo. Di Putin dice: «Come tutti i dittatori, odia la trasparenza. Preferisce giocare a carte coperte perché solo così, come nel poker, è possibile bluffare. I dittatori possono essere grandi giocatori di carte, ma non saranno mai abili scacchisti perché per vincere devono mentire e intimorire l’avversario. Cosa che negli scacchi non è concessa». Decide di mettere la sua intelligenza al servizio della politica: «Ho un po’ di visione strategica: posso calcolare alcune mosse in anticipo e ho un intelletto che si perde malamente in un Paese gestito da generali e colonnelli». Ovviamente si caccia nei guai, il Kgb lo fa arrestare. E Kasparov non molla: «L’unico modo per fallire è non provarci».