Roma, 30 dicembre 2024 – Jimmy Carter ha chiuso la sua esistenza segnando due record: il presidente emerito più anziano in assoluto (100 anni) e l’unico ad avere vinto un premio Nobel (2002) dopo il suo mandato presidenziale, riconoscimento per la sua attiva azione e impegno per la tutela dei diritti umani, con la creazione del Carter Center nel 1982. Ma il suo record principale è sicuramente quello di essere stato rivalutato per la sua breve presidenza, dal gennaio 1977 al gennaio 1981, cerniera e passaggio tra due figure ingombranti di presidenti repubblicani molto diversi da lui: Nixon e Reagan.
Quando vinse le elezioni, nel novembre 1976, gli Stati Uniti stavano celebrando l’anno del bicentenario della dichiarazione di indipendenza. Il Bicentennial venne monopolizzato dal presidente Ford, il vice di Nixon che ne aveva preso il posto dopo le sue dimissioni; Carter, candidato democratico, lo batté agevolmente ma poté godere del bicentenario e delle sue celebrazioni solo per uno scampolo di due mesi, come president elect, proponendo il “suo” sogno americano. Profondamente religioso, orgoglioso figlio della Georgia e del Sud, si definiva imprenditore agricolo (ereditò l’impresa di famiglia di arachidi) pur essendo laureato in ingegneria all’Accademia navale statunitense. In Marina aveva servito durante la Seconda guerra mondiale, per poi darsi alla carriera politica.
Il suo programma, proposto a un’America scioccata dalle furberie di Nixon, Tricky Dick (Riccardino il truffaldino), era molto semplice: trasparenza, politica estera concordata con gli alleati e, soprattutto, difesa dei principi e dei valori (americani, ma non solo). La distanza dal modo di operare di Nixon e, soprattutto, di Kissinger, la sua longa manus, non poteva essere più ampia. Carter come presidente promosse la centralità della difesa dei diritti umani nel mondo, mettendo in profonda crisi – di immagine e politica – l’Unione Sovietica del tetro Breznev, che solo nove anni prima aveva compiuto l’ultimo affronto occupando la Cecoslovacchia e soffocando la “Primavera di Praga” con i carri armati. Sui diritti umani Carter incentrò gran parte della sua critica nei confronti del sistema sovietico, riuscendo a orientare i media di tutto il mondo su casi come quello di Andrej Sacharov, dissidente sovietico diventato la bandiera del dissenso anche all’estero. Certo, pur criticando il sistema sovietico il presidente Carter continuò a sostenere regimi illiberali e dittatoriali, come quello di Pinochet in Cile, il che gli valse l’accusa di adottare un double standard per la difesa dei diritti umani: tutti i diritti umani sono da difendere, ma qualcuno è più difendibile di altri.
Con l’Europa ebbe posizioni sempre aperte e di dialogo costruttivo, arrivando a teorizzare una “attenzione senza interferenza” per quei casi più complicati, come l’Italia del sequestro Moro in pieno travaglio del terrorismo politico, di sinistra e di destra. Uno dei suoi successi principali fu sicuramente la conclusione degli Accordi di Camp David, nel settembre 1978, tra l’israeliano Menachem Begin e l’egiziano Anwar al-Sadat, per promuovere la pacificazione e il reciproco riconoscimento tra Egitto e Israele. Sadat pagò quell’accordo con l’espulsione dalla Lega Araba e, qualche anno dopo, con la morte per mano di fanatici membri della sua guardia del corpo. La rivista “Time”, dedicando a Carter la copertina per un bilancio della sua presidenza, metteva l’accordo di Camp David in cima alla lista delle sue realizzazioni. Tutto venne però vanificato dagli eventi del 1979: nel marzo la rivoluzione Khomeneista in Iran dette vita alla repubblica islamica, con l’eliminazione del corrotto regime dello scià Reza Pahlevi, grande amico dell’America. Gli USA subirono l’affronto dell’occupazione della loro ambasciata a Teheran e il sequestro di 52 diplomatici e funzionari. La reticenza di Carter a usare la forza di fronte a un atto di tale ostilità, fece crollare la sua popolarità ai minimi storici. Poi, nel dicembre, l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa.
Le sanzioni che Carter impose (politiche, commerciali, sportive) non valsero a risollevarne la figura. Uscì di scena come uno sconfitto, eppure alla lunga è stato vincitore: la sua parola ha continuato ad essere ascoltata da tutti i presidenti che si sono susseguiti, e il suo impegno sociale ne ha fatto un modello di ex-presidente che, peraltro, ha rifiutato ogni contratto di consulenza e non ha mai parlato per denaro come conferenziere. Si è mantenuto coi suoi libri, tanti (33) scritti negli anni, con l’azienda di famiglia e con la passione per i principi che il suo consigliere, Brzezinski, riteneva il corredo necessario di ogni forma di potere. Tra i suoi amici ed estimatori l’ex presidente Obama, Hillary Rodham Clinton, il meglio del logorato partito democratico. A sorpresa anche Trump, che nelle ore della scomparsa ha speso una parola affermando che “ha fatto il possibile per migliorare la vita degli americani. Abbiamo tutti un debito di gratitudine”. Speriamo che Trump non concluda in futuro la frase con un “io, invece, farò di tutto per rovinarvela, la vita”.