Sabato 16 Novembre 2024
GIOVANNI MORANDI
Esteri

Jan Palach, il martire della libertà. Si diede fuoco a Praga 50 anni fa

50 anni fa lo studente si dette fuoco a Praga contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Oggi è un eroe nazionale

Il monumento a Jan Palach (Foto d'archivio Ansa)

Il monumento a Jan Palach (Foto d'archivio Ansa)

Praga, 16 gennaio 2019 - In giorni normali nessuno fa caso al monumento di Jan Palach, che è vicino alla statua equestre di San Venceslao e i turisti stanchi preferiscono farsi fotografare qui, sotto questo monumento trionfante anziché accanto a quello mesto del giovane suicida. Il monumento a Palach è oltre la strada, dopo le catene che delimitano la piazza. Insomma è un impiccio andarci. Oggi invece non è un giorno normale e nel luogo in cui lo studente boemo in quel fine gennaio del 1969 decise di suicidarsi per la libertà del suo paese, la croce appoggiata a terra, che lo ricorda, è coperta di fiori e di lumini accesi. La storia è sempre un buon giudice, magari severo ma attendibile. Se chiedi ai vecchi di Dubcek, il segretario del partito comunista di allora, il compagno ribelle che dette vita alla Primavera di Praga, è molto probabile ne parlino bene. Era un riformista e un uomo giusto, dicono. Se invece chiedi di Dubcek ai giovani è molto facile ti rispondano che fu solo un comunista come gli altri, dunque da dimenticare, un comunista che pensava ci fosse un comunismo diverso e che invece dovette ammettere che ce n’era solo uno ed era quello. Se invece chiedi ai giovani di Palach, il discorso cambia, perché per loro Palach è un eroe nazionale e morì per la libertà, che intendeva nell’unico modo possibile ovvero abbattendo il comunismo. Questo è il quadro a cinquanta anni di distanza da quei fatti, e non si può nemmeno dire che questa sia la nuova Repubblica Ceca perché i boemi la pensavano così anche in quel giorno freddo e grigio i cui un milione di persone vennero a Praga per seguire il feretro di quel giovane che nessuno conosceva fino a quella mattina in cui imitò i monaci buddisti di Saigon per morire poi dopo tre giorni, il 19 gennaio.

Dovettero passare venti anni perché crollasse il comunismo, ma quel giorno quel popolo aveva ben visto, e seppe da che parte schierarsi contro uno Stato che fu assente, perché il funerale di quel giovane che si era ribellato ai carri armati sovietici che nell’agosto del ’68 avevano invaso il suo paese, non fu una cerimonia funebre ma una rivolta, una denuncia della dittatura. Si rilegge oggi con una certa pena il telegramma di Dubcek, che fu trasmesso per radio. Dubcek era sparito dal giorno dell’invasione e se ne stava nell’ombra anche in quel 25 gennaio. Era a Bratislava e in quel messaggio scrisse di sottoscrivere le scelte del governo, promettendo di riprendere al più presto la sua attività interrotta da una lieve forma influenzale.

Erano i tempi in cui i gerarchi comunisti che venivano defenestrati soffrivano tutti di influenza e alcuni ne morivano anche. Dubcek non c’era quel giorno in cui Praga non fu attraversata dalla solita manifestazione con le bandiere rosse ma da uno sterminato corteo di un milione di persone sotto le bandiere nere del lutto. Tutti portavano al bavero la coccarda con i colori nazionali listata di nero. Dal giorno in cui Palach si era dato fuoco erano spariti i carri armati russi che da agosto presidiavano le strade e le piazze di Praga e sostituiti dalla polizia ceca. Al corteo fu vietato passare da piazza San Venceslao, dove le fiamme avevano avvolto il corpo di Palach, ma fu autorizzato a passare davanti al monumento di Jan Hus, l’eretico boemo, ex studente all’università di Praga, nel 1415 morto sul rogo per aver denunciato la corruzione del potere religioso, grande anticipatore della riforma protestante. Anche Palach non era cattolico, era evangelista ma a seguire il feretro c’era pure il vescovo cattolico Frantisek e il pastore evangelico che fece l’orazione invitò a pregare per il suicida Jan Palach, nella consapevolezza che perfino le Sacre Scritture fanno la differenza tra il suicidio di Giuda e quello di Sansone. Uccidersi contro il tiranno non è peccato.