Roma, 24 ottobre 2023 – Edith Bruck è angosciata. Parla dal suo letto, sofferente per una caduta domestica, ma fa più male quel che vede attorno a sé. L’antisemitismo che funesta l’Europa, la guerra in Israele che promette altro odio, altra violenza, in una catena senza fine. "È tutto così orribile – dice la 92enne sopravvissuta ad Auschwitz, autrice di libri come Lettera alla madre e Il pa ne perduto , dedicati alla Shoah –. Soffro per ogni vita perduta e perché ogni possibile soluzione sembra allontanarsi. Ma una soluzione ci deve essere. Bisogna arrivare ad avere in quella terra due Stati, Israele e un libero Stato palestinese. Tutti sanno che questo è necessario, ma non fanno niente. Da decenni".
Signora Bruck, in Europa torna forte l’antisemitismo.
"Io direi che l’antisemitismo non è mai passato, casomai è aumentato con questa terribile guerra fra Israele e Hamas. L’antisemitismo stava crescendo già prima che cominciasse questo disastro, non dimentichiamo che le destre in Europa sono in ascesa già da tempo. Il punto è che ora tutti gli ebrei si sentono e sono in pericolo senza nessun motivo. Quello che accade a Gaza è gravissimo, la guerra è terribile, ma perché devono avere paura tutti gli ebrei? In Italia, in Europa, in tutto il mondo?"
Perché gli ebrei vengono minacciati?
"Italo Calvino, che era un amico, una volta mi disse: voi dovreste andare in America, i vostri lettori sono in America. Anche lui si rivolgeva a me con il ’voi’, come se gli ebrei fossero un corpo unico. Questo è rivelatore. Gli ebrei sono sempre stati considerati, giudicati e condannati come un insieme, senza distinzioni. In questa retorica non ci sono né gli individui né gli ebrei italiani, o spagnoli o di qualsiasi altro Paese: veniamo indicati come un’entità compatta. Anche in questi giorni ci sono delle manifestazioni in favore dei palestinesi in cui la colpa di quel che accade sembra essere tutta degli ebrei, e di tutti gli ebrei".
Che sensazioni prova in questi giorni?
"Non ci sono parole per esprimere il mio orrore. L’attacco di Hamas è stato terribile. E inatteso. In Israele tanti erano impegnati a contestare Netanyhau, e facevano benissimo, ma lì si erano dimenticati dei nemici che avevano alle spalle e che hanno avuto due anni di tempo per preparare l’orrore che hanno praticato. Dov’erano i servizi segreti? Ma detto questo, io sono angosciata anche per i palestinesi. Ogni vita è preziosa, i civili devono essere sempre protetti".
Che cosa dovrebbe fare oggi Israele?
"Israele deve difendere il proprio piccolo Paese, ma non certamente al costo di seminare morte ovunque. Bisognerebbe allontanare i civili da Gaza, proteggere le famiglie palestinesi, e Israele dovrebbe poi lottare contro Hamas. Non deve morire nessun civile".
Questo non sembra possibile.
"Forse è troppo tardi per la pace, ma se non si arriva ai due Stati questa storia non finirà mai. Dobbiamo fare qualcosa per calmare il mondo. Da quando sono nata non ho visto altro: sempre antisemitismo, sempre guerre. Fino ad Auschwitz. Io detesto le guerre. Le guerre moderne sono tutte contro i civili, non sono guerre fra eserciti. Non ci sono guerre giuste".
Nemmeno questa?
"Le guerre sono massacri che creano altri odi, che allontanano le soluzioni".
Il papa ha detto: fermatevi.
"Ogni giorno Francesco non fa che dire questo, prima per l’Ucraina, ora anche per Israele e Gaza. Ma nemmeno il papa viene ascoltato. Quando venne a casa mia mi disse: tu sei una goccia di bene in questo mare nero. Io sono tornata dal campo senza odiare né i tedeschi né i nazisti e ho parlato e scritto tanto, ho testimoniato la fratellanza, sono diventata una pozzanghera a forza di parlare e scrivere, ma evidentemente non basta mai".
Ha perso la speranza?
"Sento che la mia voce di sopravvissuta ai lager rischia di non contare più nulla, ma so di avere seminato qualcosa di buono parlando nelle scuole con i ragazzi. Ho fiducia in loro. E poi in uno dei miei libri ho raccontato di cinque luci, di cinque gesti e sguardi umani che mi hanno protetta anche nei momenti più bui. Come la luce di quel soldato che alla selezione ad Auschwitz mi disse ’vai a destra’, cioè ai lavori forzati, e non a sinistra, alla camera a gas. O la luce di un altro soldato che a Dachau mi chiese il nome, quando ero distrutta e abituata a essere chiamata per numero, 11152: mi dovette chiedere per tre volte il nome, perché ero inebetita; fu un faro, una speranza. Come i due centimetri di marmellata che mi diede un altro militare. Quei due centimetri di speranza ci sono sempre".
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