Martedì 5 Novembre 2024
CARLOTTA MORGANA
Esteri

Israele, la scelta di Angelica: l’italo-israeliana rimasta nel kibbutz. “La pace è possibile, ma chi vuole annientarci come i nazisti va messo all’angolo”

Calò Livné e il marito Yehuda non hanno raccolto l’invito ad abbandonare il villaggio di Sasa al confine con il Libano. Sono i fondatori del Teatro dell'Arcobaleno, un laboratorio per giovani attori delle località ebraiche, arabe, druse, cristiane e circasse. “Israele ha tutto il diritto di esistere e di intessere rapporti positivi con i vicini arabi”

Kibbutz Sasa (Confine con il Libano), 26 ottobre 2023 – La priorità, adesso, è raccogliere tremila tonnellate di mele e kiwi nel frutteto che fanno di Sasa, kibbutz giardino ai piedi del monte Meron, a pochi chilometri dal confine con il Libano, un gioiello dell'agricoltura israeliana. Dei suoi quattrocento abitanti, ancora ligi ai dettami degli ideali socialisti e comunitari che spinsero tra questi boschi i suoi fondatori nell'ormai lontano 1949 ne sono rimasti una trentina a presidiare le casette di pietra, colorate da gelsomini e boungaville. “Abbiamo le valigie pronte”, ammette Angelica Calò Livné, che con il marito Yehuda è tra quelli che non hanno raccolto il pressante invito dell'ambasciata italiana di Tel Aviv di abbandonare il kibbutz, a un tiro di missile e da infiltrazioni di Hezbollah.

Il teatro dell'Arcobaleno
Il teatro dell'Arcobaleno

“Per fortuna – ammette Angelica – per evitare che la frutta marcisca sugli alberi, sono arrivati ad aiutarci gli amici arabi residenti nei villaggi vicini”. Per lei, che gli arabi non siano una minaccia è una cosa normale, nel solco di quella pacifica convivenza che persegue da sempre. Almeno da quando, ragazza di vent'anni, lasciò l'agiata esistenza romana per affrontare la rude vita comunitaria in Alta Galilea. Qui, tra lavori manuali e impegno universitario, ha conosciuto Yehuda, si è sposata, laureata in Lettere con indirizzo teatrale, diventata in pochi anni madre di quattro figli maschi, tre dei quali, tutti padri di bimbi piccoli, richiamati come riservisti, si trovano ora a fronteggiare la probabile invasione di Gaza.

Una ventina d'anni fa, Angelica e Yehuda Calò Livnè, che in questi giorni terribili ha il compito di organizzare la sicurezza di Sasa, hanno fondato Bereshit Lashalom (un principio per la pace) e il Teatro dell'Arcobaleno, un laboratorio di giovanissimi attori, quasi tutti adolescenti, provenienti

da località ebraiche, arabe, druse, cristiane e circasse che gravitano in Galilea.

Obiettivo: mettere in scena una serie di spettacoli ispirati "all'insopprimibile bisogno di crescere in un mondo di pace”. Il costante lavoro con i ragazzi, artefici di numerose tournées anche in Italia, è valso a questa italo-israeliana di sessantotto anni una candidatura al premio Nobel per la pace nel 2006 insieme alla palestinese Samar Saharr.

Il teatro dell'Arcobaleno
Il teatro dell'Arcobaleno

Angelica Calò Livnè, si può ancora parlare di pace dopo la mattanza di Hamas e le bombe israeliane sui civili gazawi? 

"Ora più che mai”.

Come è possibile?

“Ognuno deve fare la sua parte, per quanto è nelle sue competenze. Io, come educatrice, non smetterò mai di credere che possiamo, dobbiamo, convivere con i palestinesi”.

Il governo di Netanyahu non è proprio su questa linea.

“Non a caso da mesi e mesi abbiamo riempito le piazze per chiedere le sue dimissioni. Di fronte a quanto è successo il 7 ottobre, un pogrom dei peggiori ai danni del mio popolo, ci siamo compattati. Ma il governo non c'entra”.

In che senso?

“Nel senso che tutto ciò che fa andare avanti Israele, dall'approvvigionamento dei riservisti, al funzionamento degli aumentati servizi sanitari, al reperimento di sostegni ai sopravvissuti dell'eccidio di Hamas, è opera delle migliaia di volontari che hanno momentaneamente abbandonato quelle piazze di protesta per ritrovare una strada unitaria che porti alla fine di questo incubo”.

E' ancora possibile?

“Certamente. Si deve ripartire dal reciproco riconoscimento e da regole condivise. Dopo il 7 ottobre, se si può, i rapporti con gli arabi dei paesi intorno al mio kibbutz, sono addirittura migliorati. Sono stanchissimi, a loro volta, di vivere senza futuro. La gente di Gaza ne sa qualcosa. Però, dico: nel 2005 gli israeliani se ne sono andati, gli hanno lasciato una striscia di terra che era un giardino con le centinaia di serre realizzate dai coloni. Invece di continuare quel lavoro, le hanno bruciate. Due anni dopo hanno scelto di avere Hamas come governo e hanno cominciato a vivere ancora più nel terrore. Sono da allora una prigione a cielo aperto? Le responsabilità non sono tutte israeliane. Io non sono una politica, non so quali le migliori strategie per scrivere ora accordi duraturi che mettano fine a tutti questi morti. Ma so che Israele ha tutto il diritto di esistere e di intessere rapporti positivi con i vicini arabi. Chi vuole annientarci, cancellarci dalla faccia della terra come volevano i nazisti, deve essere messo in un angolo”.

Da chi?

“Ci aspettiamo davvero che i governi democratici si schierino una volta per tutte. E che mettano al bando rigurgiti antisemiti che purtroppo continuano imperterriti a fomentare odio e propaganda ignorante. Soffro fisicamente quando vedo e sento slogan sanguinari e faziosi anche nella mia beneamata Italia”.

Non ha paura di restare a Sasa, sotto il tiro di Hezbollah?

“No, abbiamo i bunker, l'esercito intorno al kibbutz. Sono terrorizzata invece che capiti qualcosa ai miei figli, che hanno la proibizione, da soldati, di comunicare con le famiglie. Ho soprattutto tanta paura per i miei cinque nipotini, la più grande non ha ancora sei anni”.

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