Le immagini sono terribili, come i silenzi che le accompagnano. Del villaggio di Moulay Brahim non resta più niente. Scomparse le case fatte di pietre, di fango e di paglia. Soffiato via il bar ristorante Toubkal con i suoi tavolini e le sedie di plastica rossa e gialla. Sepolta la moschea con tutte le abitazioni circostanti, ridotte a un ammasso di rottami, lamiere, parabole divelte. In questa località della provincia di Al-Haouz, epicentro del terremoto che venerdì notte ha devastato il Marocco, i superstiti scavano a mani nude fra le macerie. È qui, in questa fascia a sud-est di Marrakech, in questi paesi sperduti ai piedi dell’Atlante, da Ait Ourir a Amizmiz, da Moulay Brahim a Tahannanout, che si registra il più alto numero dei morti: 1.293 fra i 2012 fino ad ora recensiti.
La Rn9, la strada nazionale che collega Marrakech a Ouarzazate, è diventata ormai "la route de la mort". È una regione di poveri percorsa fino a ieri dai pullman di turisti spensierati. Gli abitanti, per la maggior parte berberi, sono contadini. Quasi tutti si sono costruiti la casa da soli, pezzo su pezzo, senza strutture di ferro capaci di resistere ad un sisma. Adesso, annichiliti, piangono i familiari e gli amici scomparsi. A Moulay Brahim, tremila anime in tutto, l’intero villaggio si è stretto attorno a Lahcen, seduto in terra, il corpo rannicchiato nella disperazione e nel dolore: ha perso la moglie e i quattro figli, rimasti in trappola nella casa crollata venerdì notte mentre lui dormiva fuori, all’aperto. Ieri una squadra di volontari ha estratto dai calcinacci i corpi della moglie e del figlio maschio, poi quelli delle tre ragazze. Sono stati sepolti in una fossa scavata dai vicini. "Dio mi ha abbandonato, è la sua volontà", dice Lahcen singhiozzando. Si asciuga le lacrime con un lembo della polverosa gandoura, la tunica senza maniche e cappuccio che tutti qui indossano: "Non c’è più mia moglie, non ci sono le bambine, non c’è mio figlio, sono rimasto solo io. Per fare cosa? Come continuare a vivere? Voglio andarmene, allontanarmi da questo mondo. Che Dio mi ascolti".
A una trentina di chilometri da qui, nel villaggio di Amizmiz, si vivono scene drammatiche identiche. La gente si muove come intontita sotto il sole. Case crollate a perdita d’occhio, automobili schiacciate, dovunque i segni della rovina. Un gruppo di medici volontari appena arrivati da Casablanca è al lavoro sotto una grande tenda utilizzata di solito per matrimoni e cerimonie. Su un tavolino ci sono medicine, siringhe, cotone idrofilo. Curano i feriti portati a braccia su una lettiga. Per alcuni non c’è più niente da fare, verranno seppelliti rapidamente. Qui come negli altri paesi toccati dal sisma stanno arrivando a centinaia i giovani che si erano trasferiti a lavorare in Francia, in Germania, in Italia: vengono ad occuparsi dei loro vecchi. Come Rada, 30 anni, che dopo un volo da Marsiglia a Marrakech si è precipitato in autobus verso Amizmiz: "Non sapevo se mia madre e mio padre erano ancora vivi. Impossibile avere notizie, qui non funziona più niente, le linee telefoniche sono fuori uso. Non c’è acqua né elettricità, manca anche da mangiare. Per fortuna i miei sono rimasti illesi nel crollo dell’abitazione. Appena possibile li porto via".
Nella piazza principale del paese, là dove si sistemavano ogni mattina all’alba i contadini con i cesti di frutta e verdura, il terremoto ha aperto una sorta di cratere che non impedisce tuttavia alle donne, forti e impassibili, di cucinare il riso per i bambini e sistemare materassi per la notte. Najet, quarant’anni, scuote la testa: "Non è un posto sicuro. Potrebbero esserci altre scosse anche più forti nelle prossime ore. Io mio figlio me lo porto via, ho messo in valigia le coperte per andare a dormire nel deserto". Tutti respirano, come lei, l’angoscia del futuro nella provincia martire di Al-Haouz. Era il granaio del Marocco: oggi è un posto abitato da naufraghi che hanno i visi sporchi di terra, di polvere e di paura.