Ottaviani
Ne resterà solo una. O almeno questo è ciò che si augurano in Siria e fuori. Il leader della rivolta, Abu Mohammed al Jolani, ha assicurato una transizione pacifica e un futuro democratico. Il suo maggiore azionista, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha più volte sottolineato che verrà mantenuta l’unità e l’integrità territoriale del Paese. Che, però, è disunito di suo, in un mosaico di etnie e fedi che sarà molto difficile comporre senza che qualche tessera non salti. Ankara, dalla stabilizzazione del nuovo corso dipende la definitiva consacrazione come nuovo player regionale, ha già fatto sapere che non vuole i curdi al tavolo in questa fase preliminare. Il tutto, con buona pace del ministro degli Esteri di Ankara, Hakan Fidan, che ha parlato di ‘governo inclusivo’, chiedendo all’Onu e alle cancellerie internazionali di tendere la mano alla nuova Siria, che per molti è un fallimento annunciato. Su questo, però, la Mezzaluna rischia di doversela vedere con gli Stati Uniti.
Il segretario di Stato uscente, Antony Blinken, è in arrivo nella capitale turca. Washington è tradizionalmente un alleato della minoranza curda, a maggior ragione adesso che teme che, con la caduta del regime l’Isis, che è stato sconfitto, ma non si è estinto, possa riguadagnare terreno proprio in zone dove i curdi hanno un controllo del territorio molto stretto. Il rischio che ci si ritrovi con una Siria spaccata a est e a ovest dell’Eufrate è concreto e questo rappresenterebbe anche il peggior incubo di Ankara: un Kurdistan siriano potrebbe riaccendere le speranze (e la lotta) dei curdi in Turchia.
Il rischio terrorismo preoccupa, e non poco anche Israele. Tel Aviv da giorni sta bombardando il territorio siriano, soprattutto su obiettivi mirati, ossia i luoghi dove potrebbe trovarsi l’arsenale di armi chimiche di Assad. Pur con tutta la fiducia di questa terra, i successori del presidente alawita non si presentano proprio con le migliori credenziali. Al Jolani ha un passato in al Nusra e al-Qaeda e fra i ribelli sono presenti molti gruppi di ispirazione salafita, pareti stretti di quelli che aiutano Hamas nel controllo della Striscia di Gaza. Non solo. Sebbene il leader abbia promesso una Costituzione inclusiva, nella prima riunione del governo di transizione, oltre alla bandiera siriana, che è stata cambiata, c’era anche quella jihadista. Benjamin Netanyahu ha pensato che sia meglio mettere dei paletti e creare una zona di sicurezza, cosa che sta facendo, sostanzialmente invadendo il territorio siriano con i carri armati, adesso che non c’è nessuno a proteggerlo.
Nel Paese, intanto, si cerca di tornare alla normalità e alla vita, dopo giorni in un cui la Siria è stata divisa fra chi andava in piazza a festeggiare e chi rimaneva in casa per la paura. Banche e negozi hanno riaperto. Al Jolani punta a una ‘soluzione libanese’, ossia un movimento confessionale che si trasforma in partito sul modello di Hezbollah, con il potere diviso su base confessionale con un bilanciamento sostanziale fra musulmani sunniti, alawiti e drusi. C’è però chi non si rassegna a perdere il Paese. Se la Russia punta al mantenimento delle basi (anche se al momento tutta la flotta navale di Mosca ha preso il largo), l’Iran ieri è intervenuto per la prima volta. L’ayatollah Khamenei, durante un discorso ufficiale, ha accusato Usa e Israele di essere gli artefici della caduta del regime, avvisando che ‘l’estensione della violenza e della morte coprirà l’intera regione più che in passato’. Segno che Teheran non intende rinunciare alla sua influenza nel Paese e che, al sorgere delle prime divisioni sulla gestione futura della Siria, potrebbe appoggiare dall’esterno alcune fazioni per creare un clima di instabilità nel Paese.