Città del Vaticano, 3 maggio 2024 – "Sono ore drammatiche ma anche di speranza". Negli occhi del cardinale Pierbattista Pizzaballa si scorge il riflesso di tutto il dolore patito dal 7 ottobre in poi ma, improvvisamente, anche di una scintilla di luce: "Non dobbiamo mai demordere, nel negoziato in corso forse qualcosa si muove". Il Patriarca di Gerusalemme, guida della comunità cattolica in Terra Santa, appena l’1 per cento nell’area, è a Roma per prendere finalmente possesso della sede cardinalizia assegnatagli da papa Francesco. La cerimonia doveva tenersi già due settimane fa quando invece l’attacco di risposta iraniano aveva determinato la chiusura dello spazio aereo. Pesa le parole, Pizzaballa, biblista e studioso della lingua ebraica ma anche pastore di un gregge che, di fatto, ha più legami con la Palestina. Per questo è apprezzato e allo stesso tempo attaccato. "Ne ho presi dal 7 ottobre di calci e di schiaffi", dice, perché gli ebrei si sono sentiti traditi, i cristiani abbandonati, i musulmani attaccati, "traggo ogni giorno lezioni". Non si arrende però.
Eminenza state facendo qualcosa per scongiurare l’attacco a Rafah?
"Diciamo che siamo presenti, adesso non è il momento di entrare in particolari".
Ma c’è un ruolo della Santa Sede?
"La Santa Sede o altri non devono entrare direttamente nella mediazione, non compete a loro, devono invece creare le premesse, facilitare i contesti che portano a negoziati risolutivi".
Come si esce ora da tutte queste ferite?
"Ci vogliono tre cose: verità, giustizia e perdono. Non si supereranno i conflitti interculturali se non si rileggono e si redimono le letture diverse e antitetiche delle proprie storie religiose, culturali e identitarie. Le ferite causate nel passato remoto e recente, come pure quelle attuali, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli".
Che cosa devono fare i leader religiosi?
"Non buttare benzina sul fuoco. E non sostituirsi alla politica né agli organismi internazionali".
Hamas e Israele stanno trattando ma sarà vera pace?
"Una pace vera e duratura richiederà tempi lunghi. Adesso dobbiamo lavorare per il cessate il fuoco, per il rilascio degli ostaggi e di quello di alcuni prigionieri palestinesi. Poi si vedrà. Ma non dobbiamo dimenticare: tutti gli accordi di pace in Terra Santa, finora, sono di fatto falliti, perché erano spesso accordi teorici, che presumevano di risolvere anni di tragedie senza tenere in considerazione l’enorme carico di dolore, rancore, rabbia che ancora covava e che in questi mesi è esploso in maniera estremamente violenta. Non si è tenuto conto, inoltre, del contesto culturale e religioso, che invece parlava una lingua esattamente contraria da quella di chi parlava di pace".
Intanto nelle università si protesta, anche violentemente.
"Confesso di fare fatica a capire. Le università sono luoghi dove il confronto culturale, anche acceso, deve essere aperto e si deve esprimere ma non nella violenza, non nel boicottaggio. Bisogna sapersi confrontare non escludendo ma argomentando".
Come sta la comunità cattolica di Gaza?
"Male ma sono bravi. Adesso da 505 membri è ridotta a 462 persone. Mancano acqua pulita, cibo, medicinali, c’è il problema delle malattie, mi dicevano alcune suore di aver contratto l’epatite e poi la tragedia di tutti, la perdita della casa. Ma resistono come si resiste anche a Jenin, in Cisgiordania".
Qual è il problema principale lì?
"La mancanza di lavoro. Quasi tutti i permessi di lavoro sono stati cancellati. La guerra, non solo in termini di vite umane, ha un costo tremendo".