Roma, 17 maggio 2023 – Nessuno più s’illude in Santa Sede su una conclusione a stretto giro della guerra in Ucraina. Alla luce della situazione sul campo e della recente visita di Volodymyr Zelensky al Papa, segnata da toni e posture muscolari, pessimismo e determinazione nel continuare a tessere la tela del dialogo si rincorrono nelle analisi geopolitiche entro le mura vaticane. Non fa eccezione padre Antonio Spadaro, tra i più fidati collaboratori di Bergoglio, al suo fianco nei 41 viaggi apostolici in 58 nazioni. "Temo che il conflitto durerà ancora a lungo, l’unica, lontana prospettiva sembra essere quella di una coreanizzazione della guerra, con confini serrati e silenzio delle armi, ma il Papa le sta tentando tutte per giungere alla fine delle ostilità, lui non demorde", confida il poliedrico direttore de La Civiltà cattolica , autore tra l’altro de L’atlante di Francesco dedicato al ruolo del Vaticano nella politica internazionale.
Kiev ha messo all’angolo la diplomazia d’Oltretevere dopo aver detto, per bocca del suo presidente, che non vuole una mediazione politica e che la pace deve essere ucraina?
"Credo che la questione di fondo non sia la marginalizzazione o meno della Santa Sede quanto piuttosto il fatto che Kiev, al pari di Mosca, non intende parlare né di pace, né di negoziati. Una simile narrazione sarebbe da perdente agli occhi del nemico e della stessa popolazione".
Eppure qualcosa si muove sul fronte diplomatico...
"Sì, ne è prova il fatto che un emissario di Pechino nelle scorse ore era a Kiev e nei prossimi giorni sarà in Russia. Il punto è che Zelensky, davanti al Papa e all’uscita dall’incontro, non ha voluto fa passare alcun messaggio di debolezza".
I toni e gli abiti militari del presidente ucraino in Vaticano hanno infastidito Bergoglio?
"No, nessun fastidio. Il Papa è mosso da un assoluto senso di realismo di fronte all’evolversi della situazione. Come ha dichiarato ai gesuiti africani, è piuttosto pessimista sull’esito del conflitto, ma non per questo si tira indietro dal fare tutto quanto sia possibile per addivenire alla pace. La retorica della vittoria credo sia inevitabile in una guerra. L’importante in questa fase è che la parola ’pace’ resti nei vocabolari di Mosca e Kiev. I termini ’armi’ e ’vittoria’ conducono a successi effimeri e non risolvono certo i problemi".
L’Ucraina continua a chiedere alla Santa Sede una condanna senza mezzi termini di Putin. Ha ancora senso battere su questo tasto?
"Ci sono messaggi molto precisi che giungono dagli occupati. Il Papa ha più di una volta distinto chiaramente tra aggressore e aggredito, la condanna dell’invasione è chiarissima. Tuttavia va compresa la sua specifica posizione, il suo voler essere nella possibilità di dialogare con entrambe le parti per far cessare il rumore delle armi".
La diplomazia della Santa Sede non taglia, ma cuce.
"Sì, per non venir meno al suo ruolo di mediazione e conciliazione. Francesco sta facendo proprio questo".
Non crede sia una pia illusione, stando anche al contesto geopolitico e alla secolarizzazione imperante, pensare a un ruolo di mediazione politica d’Oltretevere come ai tempi della crisi dei missili di Cuba?
"No, non lo è. Fa parte della storia della Chiesa, accanto allo sforzo più proprio in campo umanitario e morale. Giovanni Paolo II provò fino all’ultimo a scongiurare l’invasione americana dell’Iraq e non ci riuscì. Francesco, ai tempi di Obama e Raul Castro, contribuì a migliorare i rapporti fra Washington e L’Avana dopo decenni ad alta tensione. La negoziazione vaticana può riuscire o meno, la consapevolezza non manca".
Nell’atteggiamento di Kiev s’indovina forse un’ambivalenza di fondo dal momento che si chiede comunque alla Santa Sede di mediare per il ritorno a casa dei bimbi rapiti da Mosca?
"Nel recente scambio di prigionieri fra ucraini e russi il Papa ha avuto un ruolo centrale. La capacità e la credibilità nel negoziare della Santa Sede si deve al fatto che non ha interessi economici e politici sottostanti. Il Papa, che è un’autorità morale e spirituale, non un leader politico, è l’unica figura oggi a livello internazionale con cui s’interfacciano entrambi i Paesi in guerra".