Arturo Varvelli , direttore dell’ufficio di Roma e senior policy fellow presso lo European council on foreign relations, è corretta l’impressione che entrambe le parti nel conflitto israelo-palestinese stiano scegliendo il tanto peggio-tanto meglio?
"Mi pare evidente che le due parti siano paralizzate sulle loro posizioni e abbiano interesse a che si vada avanti al confronto sul piano militare, perché in questo modo ognuno legittima l’altro. La presenza di Hamas e la minaccia che questi costituisce per Israele legittima Netanyahu, il governo Netanyahu e la sua guerra a Gaza legittima Hamas agli occhi della popolazione palestinese della Striscia, riconfermando, secondo la visone radicale della sua leadership l’impossibilità del dialogo e la ineluttabilità della scelta della lotta armata e del terrorismo".
A prescindere dal costo in termini di vittime civili palestinesi?
"Certamente. Abbiamo chiaramente visto che Hamas se ne infischia delle perdite della popolazione civile palestinese, altrimenti non avrebbe realizzato il massacro del 7 ottobre. Hamas non solo non se ne preoccupa, ma anzi rivendica la necessità del sacrificio dei “martiri“, per ottenere l’obiettivo finale dell’eliminazione dello Stato Ebraico e della liberazione della Palestina".
Perché il governo Netanyahu insiste nel portare avanti l’operazione a Gaza fino all’offensiva su Rafah?
"Perché Israele è un Paese che in questi anni si è molto polarizzato, sia pur rimanendo nei confini democratici, e il suo arco parlamentare si è spostato molto a destra. Netanyahu sa che rimarrà al potere fino a quando ci sarà una guerra da portare avanti e ha quindi legato le sue sorti a quella della distruzione di Hamas. Cosa questo voglia dire non è molto chiaro, come ha ribadito anche Benny Gantz pochi giorni fa, dicendo che lui non intravede nessun piano da parte di Netanyahu se non l’opzione militare".
Con un governo diverso in Israele cambierebbe qualcosa?
"Credo che qualcosa potrebbe cambiare. Un nuovo leader potrebbe fare scelte diverse".
Al valico di Rafah c’è stato un incidente tra soldati egiziani e israeliani, con un morto egiziano. Il rischio di un allargamento del conflitto resta immanente?
"Siamo in una situazione molto difficile. È stato fortunatamente contenuto lo scontro con l’Iran, riducendone le conseguenze militari, e ora rischiamo la tensione in Cisgiordania, in Libano e in l’Egitto. Potenzialmente quest’ultimo in una posizione molto delicata e come la Giordania, se la crisi non termina, potrebbe anche cambiare la sua posizione".
Usa e Ue cercano di premere per una tregua e la soluzione dei due Stati, ma sinora con ben scarsi effetti.
"Vanno a infrangersi contro la rigidità delle parti in causa. Mi pare che l’Europa si sia considerevolmente mossa verso il fronte palestinese per far capire a Israele che andando avanti si troverebbe isolata sul fronte diplomatico. Anche l’America preme molto. Ma per adesso Netanyahu non si è fatto impressionare e ha tenuto la sua linea. Bisognerà vedere quel che succede dentro Israele, ma allo stato non intravedo cambiamenti".