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Uno degli ultimi gruppi di migranti dall’Italia all’Albania, a Shengjin, a fine gennaio
Roma, 3 marzo 2025 – Calma piatta a Gjader, in Albania, dove sorge uno dei due centri per migranti del piano Meloni da oltre 800 posti.
Mentre il governo ipotizza di trasformarli in Cpr, centri di permanenza per i rimpatri, al fine di superare l’impasse dettato da tre stop giudiziari sui trattenimenti, dalla costa albanese tutto tace. «Hanno fatto solo i lavori nei campi e nel porto», spiega Aleksander Uyka al telefono, titolare del ristorante ’Detari’ sul lungomare del comune di Alessio, nell’area di Shengjin dove si trova l’altro centro di approdo per migranti. Finora «non c’è stato gran movimento» risponde alla domanda su possibili rassicurazioni da parte del governo nei confronti della comunità locale. La situazione di stallo si riflette nella quiete delle strade di Shengjin e Gjader, percorse solo da chi ci vive e da qualche operatore o agente italiano. Presenti gli operatori della coop Medihospes, vincitrice dell’appalto per la gestione delle strutture, che, stando a quanto affermato dai minitri degli Esteri, Antonio Tajani, e dell’Interno, Matteo Piantedosi, non sarebbero stati licenziati. Per ora ci sono “solo poliziotti”, ribadisce Cristian, a capo del ristorante a conduzione familiare ’Il Marinaio’ che affaccia sul mare. “I migranti di Lampedusa? Li ho vicino, a 200 metri”, esclama, spiegando la vicinanza geografica con il centro di approdo a Shengjin.
I dubbi di chi abita dove sono presenti i centri si estendono anche sui tempi futuri: “Io non credo che faranno niente”, rivela ancora. I proprietari di ristoranti, bar e alberghi non sembrano preoccupati per l’atteso arrivo dei migranti, ma esprimono perplessità circa l’effettivo avvio dell’iniziativa. Il centro di primo approdo per migranti a Shengjin è strettamente controllato dalle autorità, riferiscono entrambi i ristoratori. Nell’area sotto il vaglio della polizia possono accedervi i pescatori, ad esempio, attraverso un regolare permesso. E da chi questo permesso lo ha giungono le stesse segnalazioni: non si muove nulla. Alexander, titolare del ’ Detari’, racconta di lavorare anche al porto e quindi di avere “il permesso per entrare. Anche i pescatori hanno i permessi”. È una zona “circondata e sotto controllo” aggiunge. Mentre a Gjader “non c’è niente vicino, non abita quasi nessuno lì. È tutto controllato e non c’è impatto per la gente” osserva.
Il primo dei due centri funge da punto di primo approdo. Il secondo dispone di tre strutture: un centro per il trattenimento dei richiedenti asilo con una capacità di 880 posti, un Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) con 144 posti e un penitenziario con 20 posti. Entrati in funzione a ottobre 2024, le due strutture dal costo complessivo stimato di circa 650 milioni di euro su un periodo di cinque anni – di questi, circa 62 milioni di euro sono destinati alla costruzione e gestione delle strutture – oggi sono vuoti.
La maggior parte delle principali testate nazionali, incluse le Tv, hanno riportato il susseguirsi dei fatti che hanno coinvolto i due centri del comune di Alessio e le dichiarazioni degli esponenti politici; a volte fungendo da megafoni della politica oltre che albanese, anche italiana. Attraverso gli schermi e la carta Edi Rama, primo ministro dell’Albania dal 2013, ha respinto in più sedi l’ipotesi che l’accordo sui centri possa favorire l’ingresso del paese in Unione europea. Il dibattito politico sul tema appare particolarmente polarizzato e diventa un pretesto di scontro all’interno della politica interna.
Rama ha messo in chiaro che la gestione e le operazioni sono interamente sotto responsabilità italiana, esprimendo alcune preoccupazioni sulle sfide burocratiche e operative che ne conseguono. L’ex primo ministro albanese e leader dell’opposizione di centrodestra Sali Berisha, invece, ha espresso una forte opposizione verso l’accordo con l’Italia e la legittimità di Rama nel negoziare e stipulare senza previa autorizzazione del presidente della Repubblica albanese. Nonostante la Corte Costituzionale abbia successivamente dichiarato l’accordo conforme alla Costituzione, Berisha ha continuato a criticare l’iniziativa, definendola un’espressione di logica neocoloniale da parte dell’Italia e accusando il governo di Edi Rama di sottomettersi agli interessi stranieri a discapito della sovranità nazionale.
Inizialmente la costruzione del centro nel villaggio di Gjader è stata accolta con speranza dalla comunità, con il reddito delle famiglie che deriva principalmente dall’agricoltura. Il centro migranti è stato interpretato dai residenti come una possibilità per nuovi posti di lavoro. Con il tempo alcune voci critiche hanno sollevato dubbi in merito all’accordo con l’Italia, contestando il fatto che gli immigrati non siano venuti per restare in Albania. “Vengono presi e mandati in un altro Paese, che non fa parte dell’Ue e non ha nulla a che fare con le leggi sull’estradizione e con i diritti degli immigrati” sostiene l’avvocato Elton Laska interpellato in un’intervista da Citizens.al. Altre contestazioni, invece, puntano il dito contro l’assenza di informazione preventiva sulla vicenda verso la comunità. “In Albania abbiamo creato una sorta di mentalità secondo la quale qualunque decisione presa dal governo dovrebbe essere accolta a braccia aperte e senza alcun tipo di resistenza” afferma ai microfoni di Citizens.al Besmira Lekaj alla guida del Centro giovanile Hana.
Complessivamente, oltre a una manifestazione organizzata dal Network Against Migrant Detention che include attivisti italiani, albanesi, con doppia cittadinanza e di altri paesi europei e che si è svolta a Tirana, Shengjin e Gjader il primo e il due dicembre contro “la violazione della sovranità albanese”, l’informazione sul tema resta marginale e tendente al silenzio.