Washington, 12 dicembre 2018 - Sommersa dalla pubblicità online per neomamme, ma il suo bambino è morto. Succede negli Stati Uniti. Così, Gillian Brockell, video editor del Washington Post, decide di rivolgersi direttamente alle grandi compagnie tecnologiche chiedendo di non mostrarle più articoli per bambini o per donne incinte, dopo che appunto ha perso suo figlio prima della nascita.
An open letter to @Facebook, @Twitter, @Instagram and @Experian regarding algorithms and my son's birth: pic.twitter.com/o8SuLMuLNv
— Gillian Brockell (@gbrockell) December 11, 2018
"Una lettera aperta a @Facebook, #Twitter, @Instagram e @Experian sugli algoritmi e la nascita di mio figlio". Un tweet, il suo, che inizia così, ha commosso molti utenti e attraverso il quale chiede di rispettare il suo dolore e quello dei genitori dei "26mila nenonati morti" in utero negli Usa ogni anno. La Brockell, infatti, punta il dito sulla profilazione pubblicitaria che cattura e immagazzina le informazioni sulle ricerche effettuate o sui post cliccati per proporne di simili. "Lo so che voi sapevate che io ero incinta. E' colpa mia. Semplicemente non ho saputo resistere a questi hashtag su Instagram: #30weekspregnant, #babybump. Che stupida! - scrive la video editor spiegando di essersi anche fatta convincere da qualche pubblicità - Vi imploro: se siete abbastanza intelligenti da rendervi conto che sono incinta, siete altresì sicuramente abbastanza intelligenti anche da rendervi conto che il mio bambino è morto".
La Brockell spiega di aver fatto anche ricerche che potevano confermare questo cambio di rotta tragico nella sua vita. I giganti tech se ne sarebbero dovuti accorgere, come del 'silenzio' durato tre giorni sui social o l'annuncio della perdita del bambino con le parole chiave: 'cuore spezzato', 'problema' e 'nato morto'.