Roma, 26 gennaio 2025 – La scena, una messinscena, dice molto del retroscena. Dietro le quinte della liberazione teatrale delle quattro soldate israeliane, infatti, si agitano i protagonisti del presente e del futuro di quel cumulo di calcinacci a cui è ridotta la Striscia di Gaza. Gilles Kepel, politologo e arabista francese, in libreria con Olocausti (Feltrinelli), la vede così.
Kepel, qual è il messaggio politico che Hamas ha voluto trasmettere con la ’cerimonia’ del rilascio degli ostaggi?
“Per i miliziani era molto importante mostrare queste donne in uniforme militare per sottolineare che non si trattava di ostaggi, bensì di prigionieri di guerra liberati alla fine delle ostilità. Sono soldate prima di essere donne. Nello scambio tra ostaggi israeliani e detenuti palestinesi, una donna vale 30 prigionieri, una soldata 50”.
Perché organizzare quella cerimonia?
“Hamas è stata accusata di aver trattato malissimo gli ostaggi. Tutti si aspettavano di vedere persone ferite, comunque in pessime condizioni. La cerimonia è stata un modo per dimostrare di essere un esercito, uno Stato normale”.
Però la settimana scorsa non c’era stata la stessa atmosfera di festa.
“Vero, ma c’era una tensione enorme. Ed era il giorno prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. La settimana scorsa Hamas non era così pronta; si è preoccupata di dimostrare di essere ancora una forza importante nonostante le macerie della Striscia e le uccisioni di Haniyeh e Sinwar. Con quella parata di giovani miliziani hanno detto al mondo: non siamo morti, abbiamo ancora il controllo di Gaza. Ora invece vogliono trasmettere un’idea di normalità, quasi di affidabilità”.
È anche un messaggio ai palestinesi?
“Certo, di riflesso. Il riconoscimento internazionale consente loro di dire al popolo di Gaza: non siamo marginalizzati, siamo in grado di mantenere le nostre promesse. Dopotutto, nella Striscia non si vedono alternative, l’Olp non c’è”.
La sceneggiata di ieri si può interpretare anche in relazione alla tensione dei giorni scorsi in Cisgiordania, sia tra Idf e palestinesi, sia tra Anp e Hamas?
“Esattamente. Anche perché se gli ostaggi israeliani sono rilasciati a Gaza, i detenuti palestinesi vengono liberati in Cisgiordania. Hamas rivendica il merito della loro scarcerazione, dovuta al suo negoziato e non all’opera dell’Anp. Insomma, anche questo si inserisce nella lotta per la supremazia tra palestinesi”.
Hamas è in grado di imporre la sua presenza nel dopoguerra di Gaza?
“Difficile dirlo. Di sicuro è molto indebolita. L’unico modo per metterla fuori gioco sarebbe favorire la creazione di un governo palestinese con un certo consenso. E l’unica persona in grado di garantire questo risultato è Barghuthi. Per questo Netanyahu non intende liberarlo”.
Eppure Netanyahu aveva giustificato la guerra di Gaza con due obiettivi: la liberazione degli ostaggi israeliani e la cancellazione di Hamas.
“A Netanyahu servono due Palestine. Come il kaiser mandò Lenin in Russia per scatenare il caos contro lo zar, così Bibi nel 2011 fece tornare Sinwar a Gaza affinché instaurasse una dittatura sanguinaria. Hamas è il migliore alleato di Netanyahu”.
Anche adesso?
“Sì, Hamas è una forza aggressiva. La sua presenza consente a Netanyahu di giustificare la sua permanenza al potere, di allontanare il voto e i giorni in cui dovrà rispondere del fallimento del 7 ottobre oltre che delle accuse di corruzione e genocidio”.
Quindi lei è scettico sulla tenuta dell’accordo per la tregua?
“C’è la pressione di Trump. Il suo uomo in Medio Oriente, Witkoff, ha minacciato Bibi, il quale non ha potuto fare altro che firmare il cessate il fuoco. Netanyahu confida nello staff filo-israeliano del nuovo presidente americano, ma The Donald lo considera il passato, un ostacolo al grande deal con l’Arabia Saudita per il commercio e la costruzione di nuove città”.
Hamas e Netanyahu sopravvivono politicamente solo con la guerra?
“Sì, ma non si possono più permettere il disastro che è seguito al 7 ottobre. Hanno bisogno di una guerra a bassa intensità”.
Quanto può durare?
“La politica, e più in generale la relazione tra guerra e politica in Israele, si valuta giorno per giorno”.
Netanyahu naviga a vista, dunque.
“Lo fa da 18 anni. E mai nessuno in Israele è stato al potere tanto a lungo”.