Roma, 20 gennaio 2025 – Il ritardo dell’entrata in vigore della tregua nella Striscia di Gaza ha avuto il suo tributo di sangue: diciannove persone rimaste uccise ieri mattina sotto le bombe dell’esercito israeliano prima che le armi tacessero per almeno 42 giorni. Una è morta a Rafah, sei a Khan Yunis, nove a Gaza City e tre nel Nord. Vittime dei ritardi tecnici, biascicati ai media da Hamas, e della logica spietata della guerra, che nella declinazione del governo di Tel Aviv, non conosce tentennamenti. Vite spezzate all’ultimo miglio e per questo mai scese in strada fra gli scheletri di case e negozi a festeggiare un cessate il fuoco fragile, fragilissimo, che la popolazione palestinese, quella rimasta viva, spera possa durare il più a lungo possibile.
A Khan Younis, nel sud di Gaza, appena la tregua si fa realtà, ore 10.15 in Italia, la folla intona slogan e canta. Vengono sparati colpi in aria dai terroristi di Hamas che escono dai rifugi, alla luce del sole, travisati da passamontagna neri come la pece. Gonfiano il petto, nella sicumera di aver costretto alla tregua Tel Aviv. Attorno a loro si muove una popolazione stremata, anche dei proclami bellicisti. A Gaza City gli abitanti offrono dolcetti per strada ai profughi, ammassati su auto scassate o carretti improvvisati, famiglie che cercano di tornare nelle loro abitazioni. I bambini fanno il segno della vittoria, le madri timide sorridono. Ma la maggior parte dei rifugiati macina chilometri a piedi in un controesodo bidirezionale: verso Jabalia da Gaza City, nel nord, o fino alle aree di Rafah e Khan Younès, nel sud. Portano pesanti fagotti sulle spalle. È tutto quello che hanno.
Rientrare a casa, sempre che ci sia ancora una casa. Se 46.913 palestinesi sono morti dall’inizio delle ostilità, il 7 ottobre 2023, in migliaia sono fuggiti. Adesso i network internazionali rilanciano le prime immagini e raccolgono le testimonianze di gioia dei profughi, nonostante la lucida consapevolezza che, tornando là dove una volta c’erano quartieri e abitazioni, potrebbero esserci solo macerie. "Le nostre case sono state spazzate via, al loro posto monteremo delle tende, così potremo sentire che siamo tornati nella nostra terra", afferma Saleem Nabhan citato dalla Bbc. Ed è quantomeno singolare l’ipotesi al vaglio dell’entourage di Donald Trump circa un fantomatico trasferimento in Indonesia dell’ondata di profughi. A tempo.
Mohamed Dahman, padre di 5 figli, resta con la famiglia fermo a Khan Yunis. Dorme sotto le stelle, ha perso la casa a Gaza City e non ha fretta di tornare. Soprattutto non è sicuro che questa sia la fine della guerra. Mohamed non fuma da un anno: "Vorrei una sigaretta e bere una tazza di caffè". Dall’inizio della guerra neanche un tiro ad annerire i polmoni e a scacciare gli incubi delle bombe ben più atroci e pressanti dei concreti rischi cardiovascolari. Anche se ancora in maniera insufficiente, gli aiuti umanitari iniziano a fluire, nella Striscia senza contagocce. Nel primo pomeriggio di ieri, dopo l’avvio della tregua, erano già entrati "260 camion, più 12 autocisterne cariche di diesel e quattro di gas", spiega una fonte del governo egiziano che monitora i valichi di Karam Abu Salem e Al-Awja. A quello di Rafah, che era chiuso da maggio, alcuni autisti, di ritorno dal lato palestinese dove hanno lasciato per lo più farina e cibo, si fanno largo fra i cronisti, suonando i clacson in maniera ritmata, a festeggiare il cessate il fuoco. Stanno arrivando anche carburante e moduli abitativi. La prima fase dell’accordo prevede che siano ogni giorno 600 i camion d’aiuti autorizzati ad entrare.
La popolazione affolla i mercati per procurarsi cibo. Sono donne soprattutto che non nascondono di essere "arrabbiate con Hamas per ciò che ha fatto, ha causato migliaia di morti". Sullo sfondo la scenografia spettrale ’allestita’ dai raid israeliani. Il parroco di Gaza, padre Gabriel Romanelli, osserva dalla sua canonica il brulicare nelle strade: "Gaza è veramente distrutta in tutte le strutture, sono poche quelle in piedi, l’aiuto umanitario è assolutamente necessario. Si aspetta cibo, buona acqua, diesel, quello che serve per i generatori". Ora finalmente la gente "ricomincia a vivere, vuole vedere il mare". E poi ci sono le sigarette che possono aiutare a mandare in fumo 15 mesi vissuti sul crinale tra la vita e la morte. Mohamed ci spera e prega.