Tel Aviv, 26 ottobre 2023 – Ci sono scritte su piccoli avambracci. Dolci avambracci infantili. Sarebbero da percorrere di baci. Da sentire con il dolce solletico per addormentarli. Ma i bambini di Gaza si scrivono sui dolci avambracci i nomi dei genitori, per dolore e paura, li portano addosso. Qui dalle nostre parti i ragazzini spesso si tatuano simboli, nomi amati. Lo fanno come gesto di incorporazione, di ricerca e durata. Nomi tatuati addosso perché incisi nell’anima. Mio figlio si è tatuato addosso le iniziali dei nomi dei suoi fratelli e dei genitori. Segno di appartenenza. I bambini di Gaza anche loro si scrivono sull’avambraccio il nome dei genitori e il proprio. O qualcuno glielo scrive. Lo fanno perché han paura di restare orfani. E di perdersi, così almeno qualcuno potrebbe, nel caso, riconoscerli, ricondurli a un nome, che so, cercare un parente. Essere ancora di qualcuno.
Arriva anche questa notizia dall’inferno. Dove persino i numeri dei bambini morti divengono orrenda arma di propaganda. Dove l’umano si trasforma in disumano per droga di dominio e poi droga d’abominio. Usano l’orrore e il numero dei bambini morti, quasi fingendo di indignarsi, come se la loro guerra ’stranamente’ coinvolgesse i bambini. Falsi. E allora loro, i più piccoli, alzano l’unica bandiera che possono: i loro teneri avambracci, gli avambracci dolci che sarebbero da baciare piano, con scritto il nome di chi temono di perdere, con i nomi di coloro che li amano.
Vessillo terribile d’amore e paura. Perché la guerra esalta maledettamente la paura, ma non può spegnere l’amore. E allora quelle scritte sull’avambraccio tenue e luminoso dei bambini, da un lato, certo, ricordano oscuramente il marchio che lì era apposto dai nazisti, il segno di riconoscimento, il numero, l’infamia razzista. Ma dall’altro, la scritta dei nomi di chi ha dato la vita splende contro ogni nome che invece dà la morte. Quei nomi sui piccoli avambracci, indifesi, disarmati, e che dovrebbero giocare, essere invece che sotto le bombe nell’acqua a fare giochi, nella sabbia, a portare palloni, o quaderni, insomma i nomi sui piccoli avambracci sono il segno dell’appartenenza dei bambini alla vita non alla morte. Coloro che fan le guerre immaginano, togliendo la vita, di essere potenti. Ma l
’amore genera la vi ta ed è più potente dei signori della guerra. Chi fa la guerra si illude di essere potente perché distrugge. Ma il vero potere è di chi genera. E genererà anche dentro e dopo la maledetta guerra.I bambini impauriti di Gaza lo ricordano coi i loro santi avambracci, con le loro scritte o marchio dove si dovrebbero posare petali di sperdutissimi baci, baci che sentono il sangue vivo scorrere, pulsare, e non la paura, l’impietrito sangue. Nelle cronache dall’inferno occorre leggere, per quanto con occhi offuscati da pianto e rabbia, i segni. In queste scritte c’è la smisurata paura e la angoscia di restare soli e in balia di chissà chi.
Eppure dichiarare con una scritta "sono di qualcuno", orfano se accadere deve, ma non spuntato dal nulla, ecco, dichiarare questa verità – quasi un estremo lasciapassare per la vita – è sì un atto di paura che spezza il respiro, ma anche di fiducia. Io non sono della guerra, io sono dell’amore.