Roma, 23 gennaio 2025 – Tutto come da copione. La bufera Trump scuote il forum di Davos, dove è riunito il gotha della finanza mondiale. Il neo-presidente parla in videocollegamento e manda un messaggio esplicito all’Europa che, proprio ieri, con la von der Leyen, ha rilanciato il tema della transizione ecologica. “Altro che Green Deal – scandisce da Washington il presidente americano – questo è un green bluff”. E conferma la linea neo-protezionistica annunciata nel giorno del suo insediamento, con un messaggio chiaro all’Europa: “Se non produrrete negli Stati Uniti, dovete pagare un dazio. Mentre, per chi sceglierà di delocalizzare negli Usa, le tasse caleranno dal 21% al 15%”. Se non è una dichiarazione di guerra (commerciale) all’Europa, poco ci manca. Anche perché, nel suo intervento, Trump attacca a muso duro le decisioni assunte dalla Commissione europea sulle big tech: “L’Ue ci ha trattato molto male, vuole soldi da Apple e Google. Farò qualcosa sul nostro deficit commerciale con l’Ue”.
Ma la corrente del nazionalismo sembra ormai senza margini. Il leader è sicuramente il neo-presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha già promesso un nuovo ordine mondiale. Più o meno con le stesse parole pronunciate da Bush una ventina di anni fa. Nel club, però, c’è già un bel gruppetto di Paesi. A cominciare dal leader argentino, Javier Milei, che nel suo intervento al World Economic Forum di Davos ha fatto anche un primo elenco dei compagni di avventura che si trovano in tutti gli angoli del pianeta: “Da Elon Musk alla mia cara amica Giorgia Meloni, da Bukele in El Salvador a Orban in Ungheria, da Netanyahu in Israele a Trump negli Stati Uniti”. Una vera e propria “alleanza internazionale di tutte quelle nazioni che vogliono essere libere e che credono nella libertà”. E Milei va anche oltre, sparando a zero contro quello che è considerato il simbolo dell’internazionalismo, quella cultura “woke” che per il leader argentino rappresenta una sorta di “cancro” da rimuovere.
Siamo proprio sicuri che il ritorno del nazionalismo sia un affare per i Paesi dell’Occidente? In realtà, secondo un’analisi del Forum economico mondiale messa nero su bianco in un rapporto pubblicato ieri, la frammentazione geopolitica e il ritorno alle barriere e al nazionalismo economico costerebbero fra i 600 e i 5.700 miliardi di dollari all’economia mondiale – fino al 5% del Pil – arrivando a superare i costi della grande crisi finanziaria di 15 anni fa. Inoltre, l’uso dell’economia come arma geopolitica, in uno scenario di elevata frammentazione, porterebbe l’inflazione oltre il 5%. Allo stesso modo, l’inflazione aumenterebbe costantemente nella maggior parte dei Paesi con l’aumentare della frammentazione, il che probabilmente renderà necessario un aumento dei tassi di interesse e avrà un impatto sui costi dei prestiti per i privati, le imprese e i governi. Con il rischio, in sostanza, di un rallentamento dell’economia. Un’ipotesi che potrebbe diventare presto realtà, soprattutto in un’economia come quella americana, che continua a registrare tassi di crescita che sfiorano il 3% e un mercato del lavoro ancora in ottima salute. Gli effetti del protezionismo potrebbero essere positivi nel breve termine, ma rischierebbero di trasformarsi in un boomerang nel medio periodo perché renderebbero più pesanti gli oneri per il finanziamento del debito pubblico e alimenterebbero il deficit americano.