Roma, 27 dicembre 2022 - Il Kosovo torna a un passo dal baratro. La Kfor, la missione a guida Nato attiva da 22 anni, ha annunciato che sta indagando su una sparatoria avvenuta il giorno di Natale vicino a una sua pattuglia, mentre il Capo di stato maggiore dell’esercito serbo, Milan Mojsilovic, ha proposto il dispiegamento di truppe al confine con la regione secessionista a maggioranza kosovaro-albanese. Lì, nel Nord, dal 10 dicembre, la minoranza serba protesta, con blocchi stradali e barricate, contro il recente arresto di tre serbi, due dei quali ex poliziotti, e per la massiccia presenza di unità della polizia speciale kosovara. Il 16 dicembre le autorità serbe hanno consegnato ufficialmente alla Kfor la richiesta di invio nel Nord del Kosovo di un contingente (fino a un massimo di mille uomini) di forze di sicurezza serbe, e la Nato ha diplomaticamente detto che "la valuterà". Ma le probabilità che venga accolta sono sostanzialmente zero.
In realtà Nato/Kfor ha l’intenzione di fare da sola e ha aumentato pattugliamenti e dispiegato nuove forze nel Nord. Il premier kosovaro Albin Kurti – che ha chiesto con forza la rimozione delle barricate – ha avuto ieri a Pristina un incontro con il capo della missione civile europea in Kosovo (Eukex), Lars-Gunnar Wigemark, e con il comandante della Forza Nato (Kfor), il generale italiano Angelo Michele Ristuccia. Ma abbassare la tensione non è facile.
"È una situazione incancrenita. – osserva la professoressa Luisa Chiodi dell’Osservatorio Balcani e Caucaso -. L’impressione è che la tensione sia innalzata dalle due parti in maniera strumentale per ottenere di più, ma il mio timore è che la situazione stia scappando un po' di mano. La speranza è che si arrivi al limite del baratro senza poi cascarci. Certo, la via diplomatica è l’unica possibile per la soluzione del conflitto".
"La crisi – osserva Alessandro Politi della Nato defence college foundation – è seria ma in Kosovo ho visto crisi anche più gravi. Quel che spaventa non è che la Serbia faccia dei colpi di testa militari, ma la fragilità politica dei due paesi. Sono crisi ricorrenti perché c’è una questione irrisolta e le autorità a Pristina tentano gradualmente di affermare la propria sovranità su tutto il Paese. Ma a differenza di altre questioni aperte, come la Trasnistria o l’Abkhazia, nel Kosovo c’è la Kfor. E Kfor ha gli strumenti per prevenire e per gestirle crisi come questa. È un lavoro che si fa dal 1999 e che è tanto più imponente quanto più è nascosto". C’è chi teme una replica di quanto visto in Ucraina, con un intervento russo. "Ucraina e Kosovo – ribatte però Politi – sono due crisi scarsamente correlate. I russi nei Balcani giocano di rimessa perché con la Kfor hanno capito che la partita era chiusa. Ma a causa dell’Ucraina gli europei si sono svegliati dalla compiacenza con la quale trattavano gli affari balcanici. E meno male".
La chiave per raggiungere l’agognata stabilità è nell’Europa. Belgrado sa benissimo che nell’UE, nella quale sta negoziando l’ingresso, non ci entrerà mai se non chiude la questione Kosovo. Lo stesso vale per Pristina, che il 15 dicembre ha presentato la sua richiesta di adesione. Ma i due governi – economie fragili, democrazie fragili, esposte a traffici illeciti e mafie – non essendo capaci di rinnovare se stessi, hanno tanta comodità nell’avere un nemico esterno. E così scherzano con il fuoco.