Roma, 16 novembre 2024 – “Il senso di Trump per la giustizia”. È una delle battute più ricorrenti in queste ore a Washington. A maggior ragione dopo le prime nomine ai vertici della nuova amministrazione Usa: tra queste figurano tre avvocati di fiducia del tycoon, ossia Todd Blanch, Emil Bove e John Sauer, scelti da The Donald rispettivamente come viceprocuratore generale, come procuratore generale associato e come “sollicitor general”, che supervisiona e conduce il contenzioso governativo alla Corte suprema. Piccolo dettaglio: l’ultimo dei tre guidava la difesa di Trump nella causa per l’immunità presidenziale. Miracoli dell’elezione: come quello per cui Jack Smith, il procuratore speciale che aveva coordinato due procedimenti federali a carico di Trump – il quale infatti aveva promesso di licenziarlo “in due secondi” - ha già annunciato le sue dimissioni.
Ma non è solo la giustizia in senso stretto a preoccupare gli osservatori: il ritorno del tycoon alla Casa Bianca ha infatti riaperto il vaso di Pandora degli interrogativi sui conflitti d’interesse impliciti alle imprese della Trump Organization, al suo patrimonio, finanche ai suoi più recenti interessi nelle criptovalute.
Mark Hass, professore all’Arizona State University, la dice così: il comeback politico del tycoon è “carburante per il suo impero”. Così, quando ancora si scrutinavano i voti in arrivo dagli ultimi Swing States, già aveva ripreso a circolare un dossier dell’associazione Citizens for Responsibility and Ethics in Washington, un organo di controllo che nel 2020 aveva fatto il conteggio dei conflitti d’interessi del presidente-imprenditore: ebbene, era arrivato alla cifra-monstre di 3.400. Per avere un’idea delle proporzioni: Forbes ha quantificato le entrate delle aziende trumpiane nei suoi primi tre anni di mandato a 1,9 miliardi di dollari. Certo, poi ci sono gli affari del nostro nel quadrante arabo (tra cui progetti immobiliari a Gedda, a Dubai e in Oman), contratti suscettibili di conferire “influenza” sul presidente, così come c’è in ballo la società madre della piattaforma social Truth, ossia il Trump Media Technology Group, nel quale il tycoon detiene una quota del 53%. Giusto per rendere il quadro ancor più intricato, la medesima Truth sarebbe nei piani d’acquisto di Elon Musk, messo alla guida del Dipartimento per l’efficienza del governo.
È vero, dopo la vittoria del 2016 il presidente aveva affidato la gestione del suo impero ai figli maggiori, mantenendo però la sua partecipazione nell’azienda tramite un trust: pannicelli caldi, dicono i media. Ma ora è il New York Times a far notare che il presidente eletto “non ha ancora presentato il piano di impegno etico, richiesta dalla legge, in cui dichiara come evitare i conflitti di interesse”. Prima doveva mandare i suoi avvocati ai vertici della giustizia federale. Questione di priorità.