Roma, 29 dicembre 2024 – “Mi hanno fermato con un libro di Gramsci in tasca. Per punizione sono stato spedito nella sezione adulti ed è stata la mia fortuna, perché nel reparto minorile si veniva stuprati nelle prime ventiquattro ore. Hanno comunque trovato il modo di torturarmi anche lì. Purtroppo a Evin è la prassi”. Fariborz Kamkari, regista, sceneggiatore e scrittore iraniano-italiano di 53 anni, è stato prigioniero quando ne aveva 16 per sei mesi nel carcere a nord di Teheran dove è in isolamento Cecilia Sala. Il simbolo della repressione in Iran. Un incubo per dissidenti, giornalisti, attivisti e membri di minoranze etniche e religiose.
Torture di che tipo?
“Medievali. In base a cosa vogliono da te, si va dalle sevizie fisiche alla massiccia somministrazione di droghe per farti dire cosa vogliono sentire. A me è capitato il trattamento del pollo arrosto. Nudo, legato mani e piedi a un palo che gira come uno spiedo, sospeso in aria e frustato”.
Come è stato liberato?
“Con un trucco paradossale. I miei, che mi pensavano morto, pagarono un giudice corrotto perché dicesse che la mia colpa non era possedere un libro ma una pistola. All’epoca c’era l’amnistia per chi deteneva armi illegali e mi sono salvato”.
A Evin si stimano circa 15mila detenuti in condizioni terribili. Conferma?
“La mia esperienza risale a molti anni fa ma non credo che le cose siano cambiate. Evin è un carcere matrioska: un grandissimo palazzo di sei piani e poi un’infilata di prigioni-satellite contrassegnate da numeri. Le celle di isolamento sono larghe un metro e mezzo e lunghe tre, con una latrina e senza materasso. Si dorme sul cemento fra il viavai di topi e scarafaggi. Chi è fortunato trova una coperta piena di pidocchi”.
Il check-in deve essere stato traumatico per un ragazzino.
“Il regime aveva già eliminato in modo brutale tanti miei compagni e pensavo che avrebbero fucilato anche me. La prima sera fui parcheggiato in una sala di quarantena senza il bagno dove i tossicomani alterati davano spettacolo. Il buongiorno arrivò dai getti degli idranti. Dopo, una lotteria. Cella singola fino agli interrogatori e poi la preghiera di non finire nella sezione 209 dove chi entra non esce più. È gestita dai servizi segreti e dai pasdaran, ci mandano le spie e personaggi di altissimo livello. L’accoglienza è pari a quella dei gulag”.
Vitto e alloggio?
“Una doccia calda alla settimana per tre minuti. Ma non per i prigionieri politici finchè non accusano se stessi di essere agenti della Cia o del Mossad. Cibo zero a parte un pezzo di pane e una patata. Se hai i soldi compri una scatoletta di tonno al mercatino interno, se nemmeno da casa ti mandano qualcosa muori di fame. Sottosegretari e ministri incarcerati invece possono ordinare al ristorante”.
Per le donne ci sono trattamenti di favore?
“Non per quelle al 209. Anche a loro toccano una copia del Corano, interrogatori e torture. La più vecchia prigioniera politica ormai è dentro da 26 anni e ha organizzato una rete di resistenza. Questo fa ben sperare. Il regime cadrà presto, e sarà proprio per merito delle donne oltre che della formidabile tradizione culturale curda. Si è già incrinato il falso moralismo di un tempo, quando si volevano trasformare i cittadini in fedeli per portarli direttamente in paradiso e le guardie dopo le torture andavano a pregare. Oggi esiste solo un regime di criminali: pura violenza, corruzione e niente paradiso”.