Roma, 10 gennaio 2025 – Un lieto fine dovuto a un lavoro diplomatico di altissimo livello, un’accusa così generica da non essere stata nemmeno formalizzata e che sembra un pretesto per aver reso l’arresto possibile. L’ambasciatore Stefano Stefanini, diplomatico di lungo corso e consigliere dell’Ispi, spiega che a portare alla liberazione di Cecilia Sala, potrebbe esserci un ingrediente che sta alla base della diplomazia: la fiducia.
Ambasciatore Stefanini, Cecilia Sala è stata liberata e restituita all’affetto della sua famiglia. Era stata arrestata per aver infranto le leggi della Repubblica Islamica d’Iran. Che però non ha detto perché l’ha rilasciata.
“A quanto mi risulti non ci sono state dichiarazioni in merito. Va sottolineato che il capo di accusa era davvero molto vago. C’è un video di Cecilia Sala dove parla con il capo scoperto. Questa però è una cosa che fanno moltissime donne iraniane in segno di protesta e di solito uno sgarro del genere passa inosservato. Può però aver offerto un pretesto per arrestarla. Ma le accuse non sono mai state formalizzate, quindi sono solo ipotesi. Non sapremo mai con che formula sia stata scarcerata, a meno che non ce lo racconti la diretta interessata, un giorno”.
Data la sua esperienza come diplomatico, cosa ha fatto sbloccare la situazione?
“Di certo, il punto decisivo è stato la non estradizione dell’ingegnere, Mohammad Abedini. Noi abbiamo ottenuto la liberazione di Cecilia Sala, gli iraniani quello che volevano. Un perfetto do ut des. Sicuramente, l’abilità della nostra diplomazia, dei nostri servizi, della politica, e qui penso alla premier, è stata convincere gli americani a non farne un caso e questo passa attraverso tante sottigliezze. La premier ha fatto capire al presidente eletto che era una questione di interesse nazionale, un concetto che Donald Trump sicuramente comprende. Ma è stata importante anche l’azione portata avanti con l’Iran, perché Teheran si è fidata delle rassicurazioni che gli sono state date dagli interlocutori italiani. Questa è diplomazia di massimo livello, convincere qualcuno che quello che chiede o non è necessario o sarà risolto dopo. Ed è un successo notevole”.
Come si costruisce un’azione diplomatica di questo tipo?
“Nella diplomazia, quando funziona, c’è sempre una base di fiducia. Il precedente che mi viene in mente è una situazione ancora più delicata ed è la crisi dei missili cubani del 1962. I sovietici, in cambio del ritiro dei missili da Cuba, chiedevano quello dei missili americani piazzati sul territorio turco. Se gli Stati Uniti avessero fatto questa concessione subito, avrebbero perso la faccia. Riuscirono a convincere i russi che i missili in Turchia sarebbero stati eliminati qualche mese dopo e così è stato”. C’è chi ha ipotizzato che gli Usa abbiano rinunciato all’estradizione di Abedini in cambio del suo computer, che conterrebbe informazioni preziose per Washington. Secondo lei è possibile questa interpretazione?
“È verosimile. C’è però un aspetto di cui non si è parlato molto, secondo me. Recentemente, gli americani si sono trovati in una situazione del genere con il reporter del Wall Street Journal, Evan Gershkovich. Addirittura, in quel caso fu chiesto alla Germania di consegnare ai russi una spia che aveva commesso un omicidio ed era stato condannato all’ergastolo. Certo, per Biden non è stato facile convincere Olaf Scholz. Ma quello che voglio dire è che chiedere agli americani di rinunciare all’estradizione di Abedini, per permettere a noi di riavere Cecilia Sala è una cosa che non era assolutamente fuori dall’ordinario o almeno dall’ordinario delle circostanze che stiamo vivendo in questo periodo”.