Lunedì 30 Dicembre 2024
COSIMO ROSSI
Esteri

Cecilia Sala in cella a Teheran. Giornalista ostaggio del regime. Partita a tre, gli Usa decisivi

I destini incrociati della reporter e del manager fermato che l’America vuole processare. Meloni in campo per liberare la ventinovenne: "Ora servono cautela e discrezione".

La reporter di Chora Media, Cecilia Sala, 29 anni: la giornalista ha effettuato tra l’altro reportage sull’Ucraina e il Venezuela

La reporter di Chora Media, Cecilia Sala, 29 anni: la giornalista ha effettuato tra l’altro reportage sull’Ucraina e il Venezuela

La consegna ufficiale rimane quella del "massimo riserbo". Ma che Cecilia Sala sia stata presa in "ostaggio" a fini negoziali dal governo di Teheran è ormai dato per scontato da parte di tutti gli addetti ai lavori della sicurezza di governo e opposizione. La giornalista italiana fermata lo scorso 19 dicembre sarebbe infatti l’ignara vittima di una ritorsione, con annessa reclusione, ’diplomatica’ – le virgolette sono d’obbligo – da parte iraniana al fine di negoziare sull’estrazione negli Usa di un concittadino arrestato il 16 dicembre all’aeroporto di Malpensa da parte degli agenti della Digos su mandato appunto degli Stati uniti, che ieri hanno infatti formalizzato la richiesta di estradizione.

"Molto complicata e delicata" la partita triangolare tra Washington-Roma-Teheran, come fanno capire gli Usa che seguono la faccenda. "Cerchiamo di risolvere questa vicenda complicata", dichiara il ministro degli esteri Antonio Tajani. Mentre segue il caso "con costante attenzione" e all’insegna della "necessaria cautela" la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in costante collegamento col sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Matonvano. A conferma di un lavorio diplomatico sottotraccia assecondato anche dalle opposizioni.

Dopo le prime preoccupazioni per le condizioni di salute della 29enne giornalista italiana, la partita investe e complica inaspettatamente i rapporti fiduciari tra l’Italia di fedeltà ultra-atlantista di Giorgia Meloni e la prossima amministrazione americana di Donald Trump che ha invitato la premier italiana all’insediamento del prossimo 20 gennaio e considera la repubblica islamica degli hayatollah un pericolo secondo solo alla Cina.

In via del tutto ufficiosa le voci sono piuttosto ottimistiche. Le notizie sulle condizioni di Cecilia Sala sono considerate abbastanza rassicuranti. L’ambasciatrice italiana Paola Amadei è subito tornata a Teheran per assistere la connazionale. La Farnesina e il ministro Tajani si tengono in contatto con la famiglia e informano che la giornalista è trattata bene. Nei confronti di Sala, detenuta nel carcere per dissidenti politici di Evin, ancora non sono state formalizzate le accuse. Tutte informazioni che "rassicurano", ma al tempo stesso suffragano l’ipotesi dell’imprigionamento come ostaggio.

L’Italia si trova in una posizione sicuramente delicata e difficile tra la carcerazione senza motivazioni di Sala e l’arresto di Mohammad Abedini-Najafabadi, tra lealtà agli Usa, rispetto del diritto, protezione della concittadina italiana. La giustizia americana ieri ha formalizzato la richiesta di estradizione nei confronti del 38enne cittadino svizzero-iraniano fermato a Malpensa e accusato di essere un "tecnico dei droni" che traffica in materiali tecnologici e armamenti. Sulla base della documentazione arrivata dagli Usa toccherà adesso alla Corte d’Appello di Milano valutare se sussistano le condizioni per accogliere la richiesta di Washington. Se la Corte rifiutasse, il caso è chiuso, anche se a detta di chi sta seguendo la questione gli argomenti statunitensi non sarebbero privi di fondamento. In caso di via libera, la decisione finale spetterà comunque al Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che avrà 10 giorni per rendere effettiva l’estradizione.

A norma di legge italiana, è fatto divieto di concedere l’estradizione per reati politici, per motivi di razza, religione o nazionalità o per reati puniti con la pena di morte. E qualora vi sia ragione di ritenere che l’imputato o condannato sarà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori oppure a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona.

Qualche appiglio rispetto al sistema punitivo Usa, insomma, c’è quasi sempre. Ma non sarebbe certo il miglior biglietto da visita per la festa di insediamento di Trump. Per quanto autorevoli voci del Copasir facciano presente che "gli statunitensi dicono sempre ‘americans first’ e se noi diciamo ‘italians first’ se ne faranno una ragione".