Roma, 7 gennaio 2025 – L’arresto di Cecilia Sala è una situazione senza dubbio delicata, ma l’Italia sa come uscirne. Gianpaolo Scarante, ex ambasciatore e consigliere diplomatico di Palazzo Chigi e attualmente docente di Teorie e tecniche di negoziazione all’Università di Padova, ha spiegato che le alternative per la liberazione della giornalista italiana non sono molte e che molto dipende da quello che si sono detti la premier Meloni e il presidente eletto, Donald Trump, a Mar-a-Lago.
Ambasciatore Scarante, Cecilia Sala è nelle mani del governo iraniano dal 19 dicembre. Cosa pensa di questa vicenda?
"Purtroppo, la pratica di arrestare persone come merce di scambio è usata dall’Iran da anni. Nel 1979 prese in ostaggio l’intera ambasciata degli Stati Uniti. Da quel momento ci sono stati altri 70 casi di questo tipo".
A che punto siamo, secondo lei?
"Si tratta di una situazione molto complessa, per quanto l’Iran abbia negato, è chiaro che c’è un collegamento con l’arresto dell’ingegnere iraniano. Più che una negoziazione fra Stati è una negoziazione fra estorsore e ricattato".
Come si esce da una situazione del genere?
"Non ci sono molte alternative. La prima soluzione è quella di negare l’estradizione ad Abedini e consegnarlo all’Iran, cedendo così al ricatto. Questa è la prima ipotesi sulla carta, che però avrebbe costi molto elevati nei confronti degli Usa e bisogna vedere come sia andato l’incontro con Trump, quali condizioni siano state poste. Anche se tutto andasse bene con l’altra parte dell’Oceano, avremmo in ogni caso dei costi. L’Europa ha rinnovato le sanzioni contro l’Iran nel solo mese di ottobre, un nostro arretramento verrebbe visto come una mancanza di allineamento della politica occidentale verso la Repubblica Islamica. La seconda ipotesi che è non ci sia accordo con Washington e che Abedini non venga estradato e allora qui si apre un negoziato a parte con gli Usa, che ci devono mettere nella condizione di estradarlo o di rinviare questa decisione con qualche escamotage. La terza ipotesi che vedo è trovare compensazioni su altri temi, come scongelare fondi iraniani sequestrati. In passato lo hanno fatto anche gli Usa. Temo però non sarà qualcosa in tempi brevi. Salvo colpi di scena è rimandato tutto a dopo il 20 gennaio".
Che idea si è fatto dell’approccio italiano alla vicenda? Si è iniziato con la massima discrezione per poi aumentare il pressing…
"Ci sono due aspetti. Sulla bozza di polemica per il fatto che Cecilia Sala non fosse stata avvertita, ebbene lì mi pare ci sia poca materia. Mi ha però stupito il fatto, e credo sia un unicum, che si sia saputo del suo arresto dieci giorni dopo. Si è riusciti a tenere un profilo molto basso per dieci giorni, il che significa che famiglia, collaboratori, datori di lavoro, insomma, tutti coloro che avevano contatti con lei sono stati convinti che in questo caso il silenzio può aiutare i negoziati".
E invece?
"E invece io credo sia valido solo fino a un certo punto. La differenza fra noi e l’Iran è che l’opinione pubblica è una forza e dà prova di compattezza a un governo che va a trattare, anche perché sa di avere alle sue spalle una società civile forte. Non credo che la posizione dell’opinione pubblica sia da considerare un limite al negoziato".
Alcuni ritengono che Cecilia Sala sia stata vittima della linea dura del governo Meloni contro Teheran.
"Non credo sia così, o almeno non è la motivazione prevalente. Credo sia stata coinvolta come moneta di scambio. Negli ultimi mesi in molti hanno alzato i toni contro l’Iran. Chiaro che un ambiente così compromesso è una difficoltà ulteriore per la negoziazione, ma è importante sottolineare una cosa".
Quale?
"L’Italia sa come si gestiscono queste situazioni. Abbiamo un sistema composto da ministero degli Esteri, intelligence e Palazzo Chigi che è molto efficace. Sappiamo come muoverci".