Sabato 1 Febbraio 2025
Bruno Vespa
Esteri

Bruno Vespa e le polemiche su Almasri: “Ci sono ragioni concrete dietro a quell’espatrio”

Il ruolo di Rada, la milizia di cui il generale riportato in Libia è numero due. Il suo appoggio avrebbe aiutato a risolvere sequestri di italiani e minacce. “Chi sta a Palazzo Chigi lo sa: la sicurezza nazionale è un bene superiore”

Roma, 1 febbraio 2025 – Sì è fatto un grande rumore perché a conclusione dei 5 minuti su Raiuno di giovedì sera ho detto che in tutti i Paesi del mondo governi di ogni colore fanno affari sporchissimi con persone poco raccomandabili in nome della sicurezza nazionale. È la scoperta dell’acqua calda, ma la tensione politica strumentalizza tutto e bisogna farsene una ragione. I principali Paesi europei hanno interessi in Libia. Per questo nel 2011 la Francia di Sarkozy lanciò insieme con gli Stati Uniti la guerra contro Gheddafi alla quale purtroppo ci associammo (la Germania non lo fece). Forse per questo abbiamo il sospetto che la Corte penale internazionale abbia aspettato che il generale Almasri entrasse in Italia dalla Germania, dove pure era stato fermato e controllato, per emettere il mandato di arresto.

Il generale libico Njeem Osama Almasri Habish
Il generale libico Njeem Osama Almasri Habish

Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, è il numero 2 di Rada, una potentissima milizia che regola i rapporti più delicati del governo libico con l’esterno. I nostri servizi segreti sotto tutti i governi hanno avuto rapporti con questa gente. A me risulta, per esempio, che i due tecnici italiani Bruno Cacace e Danilo Colonego, rapiti da uomini mascherati (forse Isis) il 19 settembre 2016 (governo Renzi) ai confini tra Libia e Algeria furono liberati il 5 novembre grazie all’intervento di Rada. (Renzi dice che io avrei violato un segreto di Stato e forse proprio per il segreto non può dire se l’informazione – di pura fonte giornalistica – è corretta o no). Il 21 gennaio 2017 (governo Gentiloni) due kamikaze tentarono di farsi saltare in aria vicino alla nostra ambasciata di Tripoli appena riaperta e l’attentato fu sventato da Rada. Queste cose le sa benissimo Marco Minniti, che è stato un grande ministro dell’Interno.

Da almeno dieci anni tutti i nostri voli di Stato, anche quelli che portano i premier in Libia, atterrano all’aeroporto di Mitiga la cui sicurezza è garantita da Rada e da Almasri, in contatto con i nostri Servizi. Il rimpatrio di Almasri rientra in questo quadro e l’indagine giudiziaria contro Meloni, Piantedosi e Mantovano ci fa ridere dietro il mondo che sa come funzionano, purtroppo, queste cose. Forse il governo avrebbe fatto bene a imporre subito il segreto di Stato. Ma questa indagine, messa a ruolo in tempo reale dal procuratore Lo Voi su poche righe e qualche ritaglio di giornale trasmessi da un privato cittadino, davvero non ha senso, indipendentemente da chi sta a palazzo Chigi. La sicurezza nazionale è il principale bene comune. A proposito dell’ultimo sfogo di Giorgia Meloni, a nostro giudizio, il senso vero del messaggio non sta tanto nel provvedimento ‘voluto e non dovuto’ e nemmeno nel ‘non mi lascio intimidire e vado avanti’. Sta nel prendere atto che pochi magistrati contano più di lei e che non sono sottoposti a verifica elettorale. “Vogliono decidere la politica industriale, la politica ambientale, quella sull’immigrazione. Decidere se e come fare la riforma della giustizia”.

Qui il rischio non è quello di sottoporre i pubblici ministeri al governo, ma di sottoporre il governo votato dal Parlamento (anzi, i governi) alle decisioni di singoli, potentissimi giudici. La separazione delle carriere è quasi ininfluente su questo punto. Il sorteggio aiuta abbastanza. Ma il passo decisivo non è stato fatto. La progressione di qualunque carriera (pubblica o privata) è rallentata dagli errori che si commettono. Pubblici ministeri regolarmente smentiti dai giudici, giudici regolarmente smentiti da altri giudici non vedono intaccata minimamente – salvo rarissimi casi abnormi – la loro carriera. Diventano tutti presidenti di sezione di Cassazione. Se invece fossero valutati sulla base della quantità dei provvedimenti riformati dai loro stessi colleghi il corso della giustizia sarebbe davvero diverso. Peccato che la maggioranza non abbia avuto il coraggio di fare questo passo.