Roma, 12 marzo 2025 – “Ci dicono / da dieci anni ce lo dicono / che in Bosnia la guerra è finita”. Scriveva così il poeta e scrittore Abdulah Sidran, morto la primavera scorsa a Sarajevo. Ma davvero in Bosnia la guerra non sembra mai finita. È sempre sul punto di scoppiare di nuovo. Trent’anni, sei lustri, per contare e ricontare le vittime di Srebrenica (luglio 1995) e per valutare se gli accordi di Dayton (novembre 1995) sono stati davvero pace. O solo una soluzione trovata al tavolo – imbandito con i migliori alcolici – per provare a sostenere ciò che già allora sembrava fosse difficile da sostenere.
Un tempo c’era la Bosnia-Erzegovina. Il crocevia delle guerre balcaniche, l’immagine plastica della dissoluzione della vecchia Jugoslavia, spaccata tra etnie e confessioni religiose. Nella Bosnia Erzegovina c’erano (e ci sono ancora) i bosgnacchi (di fede musulmana), i serbi (ortodossi) e una piccola percentuale di cattolici (18%, i croati). Dopo le bombe, dopo i massacri si pensava che le due entità, per quanto distanti, la Federazione croato-musulmana (cui fu assegnato il 51% del territorio) e la Repubblica di Srpska, i serbi di Bosnia (con il 49%) potessero coesistere.
Nell’ultimo anno però, è stato un crescendo di tensioni. Fino a ieri, in cui l’ennesima crisi rischia di far sprofondare il Paese in una nuova guerra civile. La Procura della Bosnia ha emanato un ordine di arresto per il leader serbo-bosniaco e presidente della Republika Srpska (Rs) Milorad Dodik con l’accusa di attentato all’ordine costituzionale. Con la stessa accusa sono stati ordinati gli arresti del premier della Republika Srpska Radovan Viskovic e del presidente del parlamento della Rs Nenad Stevandic. Nei giorni scorsi infati, Dodik (subito dopo la condanna a un anno per disobbedienza all’Alto Rappresentante Internazionale in Bosnia) aveva emanato una serie di leggi, in tema di giustizia, considerate separatiste, culminate con il divieto dell’attività degli organi centrali di giustizia e polizia sul territorio della Republika Srpska. Nemmeno il tempo di ordinare gli arresti che è arrivata la dura risposta della polizia serbo-bosniaca: “Il nostro compito è garantire l’ordine costituzionale e nessuno sarà arrestato”. E poco dopo il premier Viskovic ha alzato il livello dello scontro: “Non mi presenterò alla Procura della Bosnia Erzegovina, non mi fido di loro”. Mai come ora il rischio di una guerra civile è concreto. E gli accordi di Dayton sembrano vacillare. Molti osservatori, già all’epoca, osservarono quanto fossero precari, stuzzicadenti scambiati per colonne portanti su cui costruire un percorso di pace. Con quegli accordi finì formalmente la guerra, ma la pace e nemmeno la pacificazione erano destinate a stagliarsi all’orizzonte.
Lo scorso anno di questi tempi si discuteva di una risoluzione dell’Onu per considerare genocidio il massacro di Srebrenica. Una risoluzione osteggiata dalla Russia (da sempre al fianco di Belgrado), dalla Serbia e dalla Repubblica dei serbi di Bosnia. Il voto su quella risoluzione slittò due volte. A fine maggio, quando sembrava il momento giusto per la votazione, Dodik se ne uscì con una provocazione, convocando il consiglio dei ministri proprio a Srebrenica e annunciando la sua intenzione di andare a deporre fiori al Memoriale di Bratunac, dove sostengono i serbi e i serbi di Bosnia che nei giorni del massacro di Srebrenica furono uccisi 3mila tra serbi e serbo-bosniaci.
Nel frattempo, le madri di Srebrenica denunciavano come sempre più spesso sui muri o addirittura nelle bandiere delle scuole venivano esaltati i miliziani di Mladic, le truppe serbo-bosniache che compirono il massacro: 8mila morti. Non furono risparmiati nemmeno i bambini.
Il peccato originario di Dayton fu quello di assegnare Srebrenica – per non creare un’enclave – ai serbi di Bosnia. Lì, nel teatro dell’orrore all’appendice del Novecento non può esserci né memoria condivisa né pace. E la cenere torna a trasformarsi in brace pronta ad ardere in un nuovo conflitto civile. Nemmeno l’arrivo del segretario della Nato, Mark Rutte, l’altro giorno a Sarajevo è servito. Così come le sue rassicurazioni (“Sosteniamo pienamente la sovranità e l’integrità territoriale della Bosnia”).