Roma 5 gennaio 2024 – Professor Gianluca Pastori (università Cattolica di Milano e Ispi), è iniziata l’ennesima visita in Medio Oriente del segretario di Stato americano Antony Blinken. Ma sinora il diplomatico non ha sostanzialmente cavato un ragno dal buco. C’è ancora un significativo ruolo americano in Medio Oriente?
"C’è nel senso che l’attivismo diplomatico dimostra il fatto che comunque sono considerati un interlocutore con cui dialogare. Ma sicuramente la diplomazia americana ha delle debolezze. La prima è che questo è anno di elezioni con esito molto incerto e di conseguenza gli interlocutori di Blinken hanno problemi ad esporsi. E così si tengono le carte in mano. C’è poi un problema aggiuntivo. La diplomazia americana sembra avere perso la capacità di incidere sulle scelte di Israele, lo abbiamo visto già negli anni dell’amministrazione Obama e poi in qualche misura persino negli anni dell’amministrazione Trump. E lo abbiamo visto in questi anni di amministrazione Biden. La politica americana sembra sempre meno capace influire sulle scelte del governo israeliano".
Come mai la Casa Bianca è meno efficace su Israele?
"Io credo – continua Pastori – che la ragione di fondo sia che i governi israeliani, specialmente i governi del Likud, si siano convinti di poter gestire il problema palestinese semplicemente con i propri mezzi interni. E questo cambia le regole del gioco in Medio Oriente. Aggiungo anche che molti medi attori regionali si stanno orientando in questa direzione, pensiamo all’Arabia Saudita, e sono diventati sempre più consapevoli di poter fare a meno del sostegno americano per conseguire i propri obiettivi. Questo ha reso la politica estera americana nell’area sempre meno efficace".
È anche un frutto dello spostamento degli interessi americani verso il Pacifico e soprattutto la Cina?
"In parte, ma non solo. L’amministrazione Biden ha stressato molto il tema diritti umani e la promozione della democrazia. Paesi che con i diritti umani o la democrazia hanno un rapporto difficile, tendono a cercare altri partner. Nel sistema internazionale attuale ci sono un numero crescente di possibili poli di riferimento. E questo permette a diversi paesi di essere meno legati di quanto non fossero agli Stati Uniti".
Con il senno di poi come valuta il disimpegno dall’Afghanistan e che effetti ha avuto su alleati e antagonisti degli Usa?
"Il disimpegno dal’Afghanistan era una scelta obbligata: prima o poi si doveva uscire. Ma l’operazione, per il suo esito infausto, ha avuto un costo politico molto forte influendo sulla credibilità dell’America nella capacità di dettare una agenda internazionale".
Se l’impegno americano in Afghanistan sembrava incrollabile ma è finito, magari anche quello per l’Ucraina potrebbe subire la stessa parabola?
"Il timore è questo. L’amministrazione professa sostegno incondizionato, ma si manifestano sintomi di quella che potremmo chiamare ’sindrome afghana’. Il rischio che gli aiuti all’Ucraina siano in futuro molto più condizionati, e che l’aiuto diventi un aiuto a tempo, c’è ed è concreto. E forse anche per questo l’amministrazione Biden, velatamente, ha sempre premuto perché si arrivi a una soluzione negoziata della crisi".
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