Torino, 10 novembre 2024 – Sull’aggressione dei tifosi israeliani ad Amsterdam il premier Benjamin Netanyahu ha parlato di “attacco premeditato”.
La pensa allo stesso modo Claudio Vercelli, storico e docente di studi ebraici: “Il calcio è un ring, una cornice per violenze già organizzate. Qui siamo oltre le dinamiche delle tifoserie ultras. È stata un’imboscata. Forse solo l’anello di una lunga catena di eventi brutali”. Un fatto sportivo dentro cui esplodono pulsioni antisemite.
Professore, la storia non ci ha insegnato niente.
“Qualcuno diceva che la storia insegna, ma non trova allievi. Viviamo in un contesto definito di post verità: tante narrazioni si equivalgono. Auschwitz non è mai esistito. E se è esistito ve lo siete meritati. Sono questi i meccanismi che portano a legittimare la violenza. Il calcio è solo un pretesto. Riproduce in maniera mediata l’aggressività, la sublima nel gioco. Ma intorno la violenza non metaforizzata cresce, cementa l’identità, crea coesione”.
Dopo il 7 ottobre l’impressione è che la frattura fra ebrei e resto del mondo si sia allargata.
“L’attacco di Hamas è stato l’elemento periodizzante in un conflitto che sembrava in stallo. Il 7 ottobre rappresenta il punto terminale di un’onda lunga 20 anni e il ritorno prepotente di una visione razzista dei rapporti conflittuali. Tra gruppi che non possono negoziare il conflitto politico ridiventa conflitto etnico. Anche a livello internazionale, soprattutto nelle società che vivono un profondo disagio. Tutto si carica di significati esplosivi. E l’antisemitismo trova elementi per legittimarsi”.
Qualcuno torna a sentire odore di avversione biologica per il diverso.
“Non credo. Però riemerge l’idea dell’ebreo come essere indegno e maligno. Per trovare punti di coesione le società in transizione devono rintracciare un responsabile del disordine. Che questo sia declinato in chiave biologica ha poca importanza. È sufficiente coltivare l’idea che gli israeliani pratichino il genocidio perché è nella loro natura. Il nesso tra passato e presente è il terzomondismo inteso come dottrina generica degli oppressi che lottano contro gli oppressori occidentali. L’antisemitismo ha molte facce e molte stagioni. Oggi si presenta come rivendicazione dei segmenti fragili della società. C’è una divisione secca fra i buoni offesi e i cattivi, essenzialmente ebrei. La politica di Netanyahu ha accentuato elementi di avversione che però esistevano già prima. Chi cercava un’occasione per esprimersi l’ha trovata”.
È paranoia o è giusto alzare il livello di allarme?
“Indispensabile. Quando si ha a che fare con l’utilizzo politico del razzismo non bastano le buone intenzioni e nemmeno le politiche repressive. C’è un’area grigia sconfinata di soggetti non disponibili alla violenza che però la osservano con malcelata soddisfazione e lasciano fare”.
Un ebreo oggi deve avere paura?
“In Europa più che altrove. Torna l’incertezza di sentirsi ospiti in una società che potrebbe revocare in qualsiasi momento quella tolleranza fragile. È antisemita non colui che odia l’ebreo in carne e ossa ma l’idea dell’ebreo maligno di cui sopra. Nei momenti di sbandamento le maggioranze si ricompattano trovando un oggetto da sterminare. È una specie di risarcimento rispetto ai problemi e ha funzionato benissimo nel ‘900 con gli imprenditori della paura”.
Come se ne esce?
“Non ne usciremo nemmeno se il conflitto israelo-palestinese fosse risolto. Odiando l’ebreo immaginario compenso il disagio. Siamo nel rito sciamanico. O nella psichiatria. Non parliamo di residui del passato, ma di qualcosa che è rimasto sottotraccia per decenni. Salta il coperchio, gli spettri ritornano”.