Roma - Uno spettro si aggira dentro largo del Nazareno, ancora più fastidioso e inquietante della “mucca nel corridoio” evocata da una delle metafore più felici di un dirigente di razza come Pierluigi Bersani. E’ lo spettro dell’imminente sottomissione del Pd al Movimento cinque stelle di Giuseppe Conte.
I numeri dei sondaggi raccolti in seguito alla drammatica sconfitta elettorale dem del 25 settembre parlando di un partito grillino in ascesa ed in procinto di diventare il secondo partito italiano superando di una percentuale minima, ma politicamente importante, gli uomini del dimissionario Enrico Letta. Dirigenti, parlamentari ma soprattutto ex deputati e senatori interrogati sul destino della loro forza politica, non fanno che ammonire rispetto a questo scenario che considerano il peggiore possibile. Peggiore anche allo scioglimento del partito, evocato da Rosy Bindi e non solo da lei.
Lo ha fatto, per dire, il senatore del Pd Enrico Borghi, componente del Copasir uscente. "A mio avviso va chiarita a fondo la natura dei 5Stelle - ha sottolineato in un’intervista - c’è chi li ritiene il frutto delle magnifiche e progressive sorti del progressismo. Sin qui hanno tenuto un atteggiamento fortemente ostile al Pd, dentro una campagna elettorale che ha intrecciato Juan Domingo Perón con Achille Lauro. Ed ora si propongono di cannibalizzarci. Direi che serve un bel supplemento di riflessione". Al di là dell’avvertimento e della oggettiva necessità di una riorganizzazione profonda, quello che serpeggia dentro il Pd è la necessità di ritrovare un’identità che ha cominciato a scolorirsi già con il renzismo e che ha ricevuto con la campagna elettorale di Letta, tutta incentrata sulla demonizzazione dell’avversaria e sul pericolo fascista, la ‘botta’ finale.
Quello che, nel tempo, ha perso il Pd, sono infatti alcune parole chiave dell’identità di sinistra il cui riferimento, nei programmi della campagna elettorale, è apparso sempre più sbiadito e incerto, quasi imbarazzato; stiamo parlando delle politiche del lavoro, del contrasto alla povertà, della difesa del reddito di cittadinanza come principio - non come legge grillina scritta con i gomiti - della questione del cambiamento climatico e della sostenibilità della società futura, dell’introduzione del salario minimo e dei maggiori investimenti nelle energie rinnovabili. Per non parlare della questione femminile, con le donne che - ancora una volta - sono state respinte con perdite nelle urne dem.
Per tutta la campagna elettorale, insomma, questi temi li ha messi sul tavolo solo il M5s, non il Pd che quasi si vergogna a parlare di salario minimo con Confindustria e forse proprio per non parlare di questioni su cui la società chiede risposte chiare in un momento di crisi drammatica, ha alzato la cortina fumogena del pericolo fascista, quando a questo ‘pericolo’, rappresentato da Giorgia Meloni, sarebbe bastato rispondere proprio con una serie di proposte di politica attiva su cui i cittadini attendono da tempo attenzione e riforme.
Invece, nulla. Ecco che allora il M5s ha fatto proprio queste tematiche e le urne hanno dato la risposta che si attendeva; salario minimo e reddito di cittadinanza hanno consentito al M5s di riprendersi la scena. Erodendo ancora di più il bacino elettorale di sinistra dei dem. Eppure, dentro il Pd c’è chi, come Luigi Zanda, ne fa solo una questione di pallottoliere: "Lo vogliamo capire che Conte, come Renzi e Calenda, vuole disintegrare il Pd per prenderne i voti? - ha detto l’ex senatore che ha scelto, con qualche ragione, di non candidarsi - il Pd dovrebbe sciogliersi e mandare allo sbando il sistema politico italiano per l’egoismo di Conte, Renzi e Calenda? Non scherziamo! Il Pd non è una costola dei 5S, che hanno dimezzato i loro voti del 2018. Ci vuole l’astuzia acrobatica di Conte per fare passare una sconfitta per una vittoria". Ma non solo. Perché anche sulle politiche rappresentate dal M5s, secondo Zanda, servirebbe una profonda pausa di riflessione: "La loro politica sociale finora è stata la politica dei ristori e sovvenzioni, un po’ alla maniera del vecchio Achille Lauro a Napoli. Può il Pd mettersi a scopiazzare politiche assistenziali in deficit di bilancio? O sarebbe meglio discutere su come creare lavoro, migliorare le scuole, mantenere alti i livelli della sanità. Per allearsi con i 5S servono lavoro politico e buonafede”.
Il problema, verrebbe da rispondere, è che il Pd non lo fa. Ed è talmente evidente che in parecchi, dentro quel ventre molle che sono le amministrazioni locali a guida dem, in molti sembravano interessati a percorrere la via di un riavvicinamento al Movimento cinque stelle. Persino il candidato più accreditato per raccogliere l'eredità di Enrico Letta, il presidente dell'Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, ha detto che intende "riaprire il dialogo con i grillini". E questo deve essere sembrato un campanello d'allarme per chi si è ricordato, tra le altre, le parole di Carlo Calenda: "Pd e M5s si alleeranno un minuto dopo le elezioni". Fatto sta che questo tentativo di integrazione, assorbimento, c'è chi non lo digerisce affatto. E ha già fatto capire che non intende restare con le mani in mano. Sempreché glielo lascino fare.