Lunedì 2 Dicembre 2024
PIERFRANCESCO DE ROBERTIS
Elezioni

Fini e i fantasmi della destra di governo

L’ex leader di An si è fatto di nuovo vedere per difendere Giorgia Meloni e il suo cammino verso palazzo Chigi. Senza però suscitare gli entusiasmi dei suoi ex compagni di partito

Gianfranco Fini

Gianfranco Fini

Nei giorni scorsi, abbastanza inaspettatamente, Gianfranco Fini ha rimesso fuori la testa. Erano anni che non si riaffacciava nella scena pubblica. Lo ha fatto in sordina, attraverso una chiacchierata informale alla sede della stampa estera con i corrispondenti accreditati in Italia. Ha parlato ovviamente del prossimo governo Meloni, e più in generale della destra che arriva al governo dell’Italia. Un fatto storico.

Fini ha difeso la Meloni dagli attacchi preconcetti di molti, ha spiegato che non c’è nessun rischio di ritorno al fascismo, e che insomma dopo gli ex comunisti anche la destra aveva tutto il diritto, e il titoli, di entrare direttamente nella stanza dei bottoni. Parole al miele per Giorgia Meloni, che però almeno pubblicamente non ha ringraziato il predecessore, né lei né alcuno della sua corte. Strano, no? Per chi conosce il mondo della destra non troppo. Molte sono le ferite ancora aperte in quel campo, molti e molto accesi sono stati gli scontri in un mondo abituato da sempre a confronti aspri, di quelli in cui non si fanno prigionieri. "Un cazzotto rafforza un’idea", diceva Francesco Storace, e la frase rendeva bene l’immagine di quanto da quelle parti il dibattito delle idee tendesse spesso a lasciare strascichi.

C’è infatti una parte dell’universo della destra che con la svolta di Fiuggi non ha ancora fatto i conti, non l’ha proprio digerita, e che considera lo strappo pensato e voluto da Fini come una sorta di tradimento ai valori tradizionali, quelli a cui restare ancorati, perché come si diceva nei Campi Hobbit dei giovani missini negli anni Settanta, "le radici profonde non gelano". Fini ha pensato una destra finalmente emancipata non solo dall’orpelleria post-fascista, quella della paccottiglia predappiese, ma anche ancorata agli ideali della destra liberale americana, alla tradizione del conservatorismo anglosassone, propugnatrice insieme di libertà economiche e aperta sui diritti e valori civili, non certo sovranista e piuttosto aperta all’Unione europea, comunque liberale nella concezione democratica e dinamica della società.

Una destra cui forse Giorgia Meloni piano piano approderà quando si sarà accorta che per l’Italia sarà meglio stare con la Francia e la Germania che con i Paesi di Visegrad (anche se dopo la crisi ucraina di Visegrad non è rimasto niente) ma che nella sua narrazione fino al 25 settembre non occupava la prima fila, e che comunque molta destra non ha nelle corde. Quelli appunto per i quali Fini è ancora un 'traditore'. La Meloni lo sa e per questo almeno ufficialmente, almeno pubblicamente, le distanze sono rimaste. E’ un mondo suscettibile il suo, le divergenze di opinione si trasformano in odii e gli odii faticano a svanire. Giorgia ne è consapevole, e per questo si tiene in equilibrio. Ma sa anche che se non ci fosse stato Fiuggi, forse lei oggi non sarebbe sulla soglia di palazzo Chigi. Lo sa ma non lo può dire.