Roma, 28 agosto 2022 - Quale è l’impostazione di fondo del Piano Nordio per una giustizia garantista e liberale?
"Oggi la vera emergenza è l’economia – esordisce Carlo Nordio, magistrato di lungo corso, in pensione, candidato indipendente con Fratelli d’Italia, possibile ministro della Giustizia di un futuro governo di Giorgia Meloni –. Ebbene, la lentezza della giustizia civile e penale ci costa, secondo studi accurati e indipendenti, circa un due per cento di Pil: quindi la prima cosa da fare è la radicale eliminazione e semplificazione di una serie di norme sostanziali e procedurali complesse e contraddittorie che rallentano i processi e paralizzano l’amministrazione".
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Quali, per cominciare?
"L’esempio più emblematico è il reato di abuso di ufficio, che ha creato la cosiddetta amministrazione difensiva, per cui nessun sindaco o assessore firma più con tranquillità o non firma affatto. Poi, con un disegno di più ampio respiro, vanno cambiati il Codice penale e quello di procedura penale".
Quali sono i capisaldi del suo progetto di Codice penale?
"Il nostro codice rispecchia bene la confusione e le contraddizioni della nostra giustizia. È del 1930, ed è firmato da Mussolini e dal re. Nella sua relazione di accompagnamento si legge che esso rappresenta la sacralità dell’ideologia fascista. E infatti, ispirandosi alla filosofia hegeliana dello Stato etico, mette al centro quest’ultimo e non il cittadino. Un Codice penale liberale rovescia il rapporto, con conseguenze importanti sia per la certezza della pena sia per la presunzione di innocenza, che peraltro richiede interventi anche sul Codice di procedura. L’ennesimo paradosso è che questo codice firmato dal professor Vassalli, partigiano decorato della Resistenza, è stato demolito dalla Corte costituzionale".
Come e perché introdurre la separazione delle carriere?
"La separazione delle carriere è una conseguenza necessaria del codice del 1989 che ha recepito i principi del rito anglosassone e non per nulla è stato definito alla Perry Mason. Ebbene, in tutti quei Paesi le carriere sono separate. Negli Usa il pm è addirittura elettivo".
Basta questo per riequilibrare il rapporto politica-cittadini-giustizia?
"No. Occorre che sia la politica, intendo tutti i partiti, a riappropriarsi del ruolo primario che le deriva dalla legittimazione delle urne. Negli ultimi trent’anni essa è stata subalterna alla magistratura, salvo strumentalizzare le inchieste contro avversari che non riusciva a battere nella competizione elettorale. È stata una sorta di democrazia dimezzata, di cui la stessa politica è in gran parte responsabile. Lo scrivevo anche quando indossavo la toga".
Serve anche il ripristino dell’immunità parlamentare?
"Secondo me si, anche se riconosco che andrebbe spiegata bene ai cittadini, affinché non sembri un privilegio di casta. I padri costituenti, Togliatti, De Gasperi, Nenni, Calamandrei, l’hanno voluta proprio come garanzia dalle interferenze improprie della magistratura. Sapevano benissimo che qualcuno se ne sarebbe servito a suo vantaggio, ma hanno acettato il rischio, perché quello della sovrapposizione di poteri era enormemente maggiore, come poi si è dimostrato".
Come dovrebbe cambiare la custodia cautelare anche per impedire la gogna mediatica per gli indagati?
"Dovrebbe essere decisa non da un giudice monocratico, com’è il gip, ma da uno collegiale, magari lontano anche topograficamente dal pm che ha formulato la richiesta. Penso a una sorta di ’chambre d’accusation’ presso la Corte d’Appello, che assicurerebbe anche una omogeneità di indirizzi. Quanto alla stampa, nessuno può imporle regole cogenti, ma sarebbe bene che tutti riflettessero che la presunzione di innocenza non è solo prevista dalla Costiuzione, ma è il fondamento della civiltà giuridica liberale e moderna".
Come accelerare i processi e ridurre le indagini a vita?
"Semplificando le procedure, depenalizzando una serie di reati bagatellari e rendendo discrezionale l’azione penale, anch’essa consustanziale a un sistema accusatorio anglosassone".
La prescrizione va cambiata?
"Quella del ministro Bonafede era una mostruosità e per fortuna la Cartabia l’ha mutata, anche se l’ha spostata nell’ambito processuale con conseguenti problemi applicativi. Credo che un buon compromesso sarebbe di farla decorrere non dal moneto della commissione del reato, spesso scoperto assai tardi, ma da quello dell’esercizio dell’azione penale".
È favorevole all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado?
"Si, certo. Il principio della inappellabilità della sentenza di proscioglimento deriva da quello che una condanna può intervenire solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma. Nel sistema anglosassone una riforma in peius non esiste, salvo che emergano nuove prove a carico della persona assolta, ma entro certi limiti, e rifacendo i processi daccapo".
Come concilia il suo garantismo con le tesi in parte giustizialiste di Fratelli d’Italia?
"Non definirei in questo modo la posizione attuale di FdI. Parlando con Giorgia Meloni ho visto che queste mie idee sono in grandissima parte condivise. Certo, una parte dell’ elettorato è più sensibile alla certezza della pena che non alla tutela della presunzione di innocenza. La mia idea è che entrambe abbiano pari valore: lo scopo dello Stato è quello di non lasciare impunito il delitto e di non condannare l’innocente".
Possiamo tornare alla normalità dopo trent’anni di predominio dei pm in Italia?
"Spero e credo proprio di si. Mi piacerebbe che su questo fossero d’accordo tutti, nell’interesse della preminenza e della nobiltà della politica".