A un certo punto, ieri sera, il centrodestra ha rischiato di arrivare oggi in Aula (specie alla Camera) senza un accordo politico pieno sulle presidenze delle due Camere, almeno quella di palazzo Montecitorio. Solo al Senato pareva fatta, nonostante qualche sopracciglio alzato dal Colle. La seconda carica dello Stato sta per andare a Ignazio La Russa. Fidato colonnello di FdI, numero due (o tre) di Meloni, uomo appassionato e passionale, esperto di molte cose, milanese, ma tifosissimo dell’Inter. Ma anche un pasionario di destra immortalato, mentre comizia, tra inni al fascismo e lotta al comunismo nell’apertura del noto film degli anni Settanta, "Sbatti il mostro in prima pagina" (1972) del regista Marco Bellocchio. Insomma, non un buon viatico. E questo al netto dei busti del Duce in casa, dei nomi dei figli in onore di due capi indiani (Geronimo e Cochise), di una storia, adamantina e coerente, di nostalgie del Msi.
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La cosa – curiosa, uno di quelli accidenti della Storia che, a volta, sono persino ironici, se il momento non fosse quello che è, cioè assai grave – è che presidente della Camera sta per diventare, invece, un leghista non solo mite, timido, introverso e, cioè, tutto il contrario di La Russa (focoso, intemperante, fin troppo estroverso), ma anche dalla solida tradizione antifascista. Infatti, Riccardo Molinari (classe 1983, di Alessandria, capogruppo alla Camera nella passata legislatura, sempre per la Lega, fedelissimo di Salvini) viene da una famiglia rigidamente antifascista e umile. Sempre attento, rispettoso – e rispettato dagli avversari politici – Molinari è il classico uomo tranquillo, pacato, riservato. Anche se, da giorni, proprio i suoi ‘alleati’ di FdI insufflano i giornali di ‘notizie’ su un processo che lo vede inquisito. Come si sa, dai nemici mi guardi Iddio, etcetera.
Il percorso che porterà oggi entrambi alla presidenza delle camere è stato accidentato. Ieri il vertice di centrodestra tra Meloni, Salvini e Berlusconi (si doveva tenere proprio per risolvere la partita dei due presidenti) è saltato. Il nodo, soprattutto al senato, è rimasto fino a sera tardi Roberto Calderoli, che ci teneva parecchio e fino alla fine ha provato a resistere, facendosi da parte solo a tarda sera. Alla Camera, invece, Molinari a un certo punto sembrava potesse fare un passo indietro. Il nodo era Giancarlo Giorgetti: se non dovesse finire al Mef, come pure la Meloni vorrebbe e forse auspica Salvini, mentre rilancia sul Viminale – la merce di scambio sarebbe il posto di presidente della Camera. A questo punto i giochi però, perlomeno su Montecitorio, paiono fatti. La notte avrà portato consiglio.