Un totem. Un Talmud. Mai più senza. Una bandiera ideologica, anzi, di più, un vessillo di salvezza, manco fosse la bandiera crociata. L’agenda Draghi è - e resterà - il tormentone più gettonato di questa campagna elettorale. Con una domanda di fondo, che gli elettori ormai non si fanno più; ma esiste davvero l’agenda Draghi? La risposta c’è, ma non si dice: no, non c’è. L’agenda Draghi non è un’agenda, è un metodo. Anzi, è soprattutto, la faccia, la credibilità internazionale, la capacità gestionale e la ‘moneta’ con cui l’Italia ha contrattato con l’Europa il Pnrr. L’agenda Draghi è - insomma- Mario Draghi. Senza di lui l’agenda è solo una suggestione, solo uno slogan che tuttavia i leader politici hanno pensato bene di stropicciare in ogni modo, fino alla consunzione, pur di accaparrarsi almeno un pezzo di quello che il quasi ormai ex premier ha rappresentato in un momento di congiuntura internazionale assolutamente inedita e drammatica; pandemia, guerra, crisi energetica ed ambientale. Per non dire di più.
In questa campagna elettorale, l’agenda Draghi è stata subito accaparrata - come idea e slogan, s’intende - dal fronte anti populista. Doveva essere l’equivalente di un asso nella manica da utilizzare per sbaragliare gli avversari nazionalisti. E invece più passa il tempo, più la campagna elettorale si fa strada, più fa emergere l’effetto opposto; doveva unire il centrosinistra, doveva essere il mastice della proposta anti populista, e invece, almeno finora, ha avuto l’effetto di dividere più gli anti populisti che i populisti. E’ sull’agenda Draghi che è saltata la coalizione tra Enrico Letta e Carlo Calenda, con il secondo che ha accusato il primo di essere un sostenitore di Draghi solo a parole. E’ sull’agenda Draghi che è saltata l’alleanza del Pd con il M5s, il quale Pd ha scelto di andare da solo alle elezioni, E’ sull’agenda Draghi, poi, che per molto tempo hanno bisticciato i due leader della coalizione più draghiana che c’è, ovvero Carlo Calenda e Matteo Renzi.
E così, mentre il centrosinistra si divide in modo fratricida sbandierando un’agenda immaginaria, il centrodestra, consapevole di cosa significhi essere considerato come il sicario del governo Draghi, dal primo giorno della campagna elettorale non ha fatto altro che mostrare il suo presunto amore per il presidente del Consiglio e per la sua azione di governo. E lo stesso, in fondo, sta cercando di fare Giorgia Meloni, dal giorno uno della campagna elettorale, ripetendo di non essere del tutto ostile all’idea di chiedere allo stesso ministro dell’Economia che c’è oggi, Daniele Franco, o a uno dei banchieri più stimati da Draghi, Fabio Panetta, di guidare il Mef in caso di vittoria del centrodestra. Insomma, a un mese dalle elezioni, il risultato è questo: l’agenda Draghi doveva unire, ma ha finito incredibilmente per dividere più i suoi sostenitori che i suoi detrattori. C’è senz’altro molto da salvare nel ‘metodo Draghi’, ma è sempre più evidente che senza la figura del presidente del consiglio uscente a sostenerlo, anche quel ‘metodo’ è destinato a sgonfiarsi come un soufflé. Chiunque governi.
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