Roma, 24 settembre 2022 - Alle elezioni amministrative del 1975 il Partito comunista conquistò i sindaci delle principali città. Fu una rivoluzione e nacque ‘L’Italia del 15 giugno’. Alle elezioni politiche del ’76 era atteso lo storico sorpasso del Pci sulla Dc. I moderati si spaventarono e Indro Montanelli, fresco fondatore del ‘Giornale’, invitò i suoi lettori a turarsi il naso e a votare Dc. Lo fecero in molti e i democristiani staccarono i comunisti di quattro punti. (Fu il debutto televisivo degli istituti demoscopici. Nello studio del TG1 detti il risultato giusto grazie alla Doxa, mentre il mio amico Mario Pastore sul TG2 dava il sorpasso comunista per un errore della Demoskopea). A sinistra si è tornati a invitare l’elettorato a turarsi il naso e votare il Pd per evitare la ‘minaccia’ della destra meloniana. Ma è un’arma a doppio taglio, perché la stessa cosa potrebbero fare tanti moderati che mai hanno votato a destra ma sembrano disposti a farlo per avere un governo stabile e ‘nuovo’ che gli altri attori in campo non sono oggettivamente in grado di offrire. Per la prima volta dal ’94, infatti, al polo di centrodestra non si oppone un blocco omogeneo di centrosinistra. Lo stesso Enrico Letta, molto onestamente, ha riconosciuto che l’alleanza con Bonelli e Fratoianni è nata per "salvare la Costituzione" e certo non per governare. Conte e Calenda viaggiano per conto loro e quindi l’aspirazione massima della probabile opposizione è di indebolire Meloni & C. con l’auspicio della ingovernabilità. Sperando che Mario Draghi faccia il contrario di quello che ha detto e ripetuto e torni a palazzo Chigi.
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Se non verranno sconvolti nei grandi numeri i sondaggi di quindici giorni fa (ogni giorno naturalmente ne arrivano di clandestini che circolano tra giornalisti e Palazzo) il centrodestra potrebbe avere una maggioranza autosufficiente. Ma comunque vadano le cose, l’Italia politica che nascerà domenica notte sarà diversa da quella che abbiamo conosciuto. Al di là di minacce e anatemi interni e internazionali degli ultimi giorni, come ha scritto ieri il Financial Times, "Roma e Bruxelles hanno bisogno di collaborare per poter andare avanti". Giorgia Meloni non è la matta eurofobica che qualcuno vuole immaginare. Sa quali sono le regole del gioco e vedremo semmai se saprà farle interpretare nel modo più vicino ai nostri interessi di quanto qualche volta è avvenuto. Salvini e Berlusconi avrebbero scarsa convenienza a smagliare una tela di governo faticosamente ricomposta dopo dodici anni (lo strappo di Fini fu del 2010).
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Sarà un’Italia diversa anche perché è stupefacente il ruolo che il reddito di cittadinanza ha avuto nell’ultima fase della campagna elettorale. Sarebbe doloroso e fuorviante rassegnarsi a identificare il Mezzogiorno con una sacca di disperazione legata a un sussidio. Giuseppe Conte, che lì miete voti a mani basse, ha capito il rischio e all’ultim’ora intelligentemente cerca di recuperare una dimensione nazionale che sa di aver perduto. È frustrante constatare come sia difficile separare il più che doveroso sostegno a chi soffre da un assegno che autorizza 850mila persone a non lavorare pur essendo perfettamente in grado di farlo. Il destino di Conte è paradossalmente legato a quello del Pd. Resterà la linea riformista di Letta o prevarrà in un prossimo congresso una vocazione di sinistra più radicale pronta ad allearsi di nuovo con il M5s? Infine, Calenda, alleato di Renzi che ha salvato intelligentemente ruolo e seggi facendosi (per ora) da parte. Calenda piace a un elettorato elitario che vorrebbe ma non può. Gioca tutto sul "Meloni-non-governerà-mai". Se la signora lo smentisse, dovrebbe aprire un capitolo nuovo.
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