Roma, 6 novembre 2024 – Professor Giovanni Orsina, ordinario di storia contemporanea e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche alla Luiss di Roma, che impatto avrà la rielezione di Donald Trump sulla scena europea dove avanzano le nuove destre patriottiche? “Partiamo dall’Europa, che è in una condizione pietosa. Il motore franco-tedesco è completamente imballato. La Germania vive una crisi economica, di modello produttivo e politica, con la coalizione di governo (socialisti, verdi, liberali ndr) che di fatto non esiste più. La Francia di Macron ha recuperato in extremis un governo, ma il premier Barnier non sa come condurre in porto la legge di bilancio. In più, tutto il continente arranca in quanto a competitività e innovazione, come evidenziato dal rapporto Draghi, e necessita di investimenti e coordinamento delle politiche di difesa. Una condizione di grandissima difficoltà, rispetto cui gli Usa perseguono da anni una politica di disimpegno, esortando all’autosufficienza militare e a una maggiore apertura commerciale”. Trump potrebbe passare ai fatti, con tanto di dazi?
“In questa condizione già difficile, non c’è dubbio che l’amministrazione Trump produrrà ulteriori pressioni sugli aspetti più importanti come la difesa e tenderà a negoziare con le singole nazioni, all’insegna del divide et impera, indebolendo ulteriormente l’Unione. Si tratta di una sfida molto forte. Ma Trump non fa che amplificare problemi noti, rispetto ai quali l’Europa è inadempiente da anni”.
I 27 come possono reagire all’isolazionismo competitivo Usa? “La capacità è molto modesta. O si ripensano le politiche, come suggeriscono i rapporti Letta e Draghi con soluzioni complesse e molto costose – ma i Paesi del Nord non vogliono il debito comune – oppure la sola possibilità sarà che ogni Paese negozi per sé. Per puntare sul green deal e diventare mosca cocchiera dell’elettrico l’Europa ha mandato in crisi l’industria dall’auto, che era stata il motore del suo sviluppo. Ma non ha funzionato: l’elettrico non tira e l’Ue non è diventata il centro dell’innovazione. E ora non sembra in grado di modificare quel disegno che si è rivelato inadeguato”. Sul piano politico, invece, il vento Usa può destabilizzare il patto tra popolari, socialisti e liberali spostando l’asse a destra? “È un asse che il Ppe ha già cominciato a demolire, prendendo una serie di iniziative insieme alle destre. E continuerà a farlo sui vari dossier a seconda delle convenienze, tendendo sempre più verso la destra, che guida le danze su questioni importanti. L’elezione di Trump diventa motivo di esasperazione di una situazione già in corso”. È plausibile l’aggregazione di una sorta di internazionale delle destre patriottiche? “Di fatto già c’è. Questi partiti si rispecchiano tra loro. Dopodiché c’è sempre la minaccia che esploda la contraddizione degli interessi nazionali che prevalgono sulle intese sovranazionali. Ma è chiaro che c’è un vento di destra e che questi partiti collaborano fino a quando la controversia non si presenta”.
Trump può facilitare o osteggiare l’avvicinamento della premier Meloni al Ppe all’insegna di Nato e Ue? “Meloni non si è mai consegnata al Ppe. Si è sempre proposta come pontiera fra i popolari e le destre sovraniste, che guadagnano consensi e governano Paesi come l’Ungheria. Dato che c’è chi continua a voler mantenere pregiudiziali, Meloni si propone come colei che è in grado di imbarcare Orban nell’interesse dello stesso Ppe. Adesso questa posizione si consolida sicuramente”.