Roma, 3 novembre 2024 – Si dice spesso che il 1989 fu un terremoto per l’Europa allargata, ed è senza dubbio vero. La caduta del muro di Berlino, la fine della contrapposizione tra i blocchi e, di conseguenza, l’apparente vittoria del sistema capitalistico liberale sul socialismo/comunismo, aprirono una fase di profonda turbolenza politica internazionale. Sia l’Ovest sia l’Est vennero attraversati da due opposte ventate: grandi aspettative di rinnovamento e tenaci difese dello status quo.
L’Europa e la sua trasformazione nel corso di questi anni serve bene a rappresentare il problema: la Comunità economica europea tra il 1989 e il 1993 si trasformò, diventando Unione europea, anche per rispondere alle nuove responsabilità europee in un mondo non più bipolare. Non si trattava di una trasformazione nominalistica; la nuova Unione nasceva per essere un nuovo soggetto politico e le aspettative, soprattutto statunitensi, andavano in quella direzione. Tuttavia, l’Unione europea non seppe operare come nuovo attore internazionale né di fronte alla crisi dell’ex Jugoslavia e alla disintegrazione del Paese entrato in convulsione dopo la morte di Tito nel 1980, né nel caso della coalizione internazionale che gli Stati Uniti cercarono di organizzare di fronte all’aggressione irachena del Kuwait alla fine del 1990.
Il nuovo presidente statunitense dopo Reagan, il repubblicano George H. W. Bush, fu in fondo il maggior esponente di chi contava in un ruolo politico della nuova Europa post 1989, anche se la sua azione, nel complesso, fu estremamente timida, sia nei confronti degli europei (tante aspettative verso la “nuova Europa”, ma nessuna reazione convinta di fronte agli scarsi risultati in politica estera) sia nei confronti dei sovietici, che nel 1991 tornarono a essere soltanto russi, a seguito della dissoluzione dell’Urss in quell’anno.
La prima guerra Del Golfo nel 1991 e la grande coalizione internazionale messa in piedi dagli Stati Uniti per combattere l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, fu forse l’unico successo di politica internazionale raccolto da Bush, mentre la crisi dell’ex Jugoslavia doveva successivamente dominare il mandato del democratico Bill Clinton. Bush padre potrebbe essere definito, in definitiva, l’eredità mancata di Reagan: dopo avere promesso di non aumentare le tasse, senza mantenere l’impegno, venne soppiantato nel 1993 con relativa facilità dal rampante giovane democratico Bill Clinton, che aveva sicuramente le idee più chiare del suo predecessore.
In politica estera Bill Clinton fu iperattivo: nella ex Jugoslavia cercò di favorire la pacificazione tra le feroci fazioni in guerra, sopportando le contraddizioni dei diversi paesi europei all’interno della Nato e guidando verso gli accordi di Dayton un Paese che restò profondamente lacerato e diviso; in Medio Oriente tenne a battesimo gli accordi di Oslo senza tuttavia riuscire nell’intento di pacificare i due nemici storici, Israele e le diverse componenti politiche palestinesi. Anche nei confronti del nuovo amico ex nemico, la Russia di Boris Eltsin che aveva di fatto eliminato la figura del padre della perestroika, Clinton tenne un atteggiamento ambiguo, senza favorire una reale transizione democratica nel grande Paese ex socialista. In particolare, gli Stati Uniti osservarono l’intraprendenza europea verso i paesi dell’Est già sovietico senza essere in grado di prevedere che l’espansione economica e commerciale dell’Unione sarebbe stata in futuro, molto più della Nato, un elemento di tensione crescente con la Russia.
La parola d’ordine dell’amministrazione Clinton in politica estera era combattere il terrorismo, già all’epoca dominato dal grande nemico del futuro, Osama Bin Laden, ma di certo non si trattò di una politica estera molto lungimirante nei confronti della nuova Europa, lasciata un po’ a se stessa nella gestione di un mondo diverso.
Pur celebrato e accompagnato da un grande consenso interno, Clinton era afflitto da una miopia politica che gli impediva di avere una visione chiara per il futuro ruolo degli Stati Uniti, limitandosi a interventi d’occasione dominati dal sogno del multilateralismo consensuale.
La sua colpa più grande? Non certo quella di avere ceduto alle grazie di una stagista in seguito messa alla gogna per la sua fugace relazione con il presidente, bensì quella di avere cancellato quella parte della legge Glass-Steagall, in vigore dal 1933, che separava l’attività di raccolta dei risparmi da parte delle banche dall’intermediazione finanziaria. Le basi della grande crisi del 2008 erano poste e stavano tutte lì, nella speculazione ad alto rischio che l’amministrazione Clinton, di fatto, rese di nuovo legale per tutti gli istituti finanziari.