Roma, 2 novembre 2024 – Il mondo guarda con trepidazione alle elezioni negli Stati Uniti ormai alle porte. Non solo, perché gli Usa rappresentano il baluardo della democrazia occidentale, ma anche (e soprattutto) in quanto è ancora Washington a dare le carte sul tavolo del mercato globale. Donald Trump o Kamala Harris, Repubblicani oppure Democratici, martedì finalmente la parola andrà agli elettori. Però, c’è un però. In verità Oltreoceano il voto popolare non conta. Non finisce dritto alla Casa Bianca chi tra i due contendenti incassa il 50% + 1 dei suffragi nei 50 Stati, che compongono la federazione a stelle e strisce, e nel District of Columbia, il distretto della capitale Washington.
Non funziona come in Europa, tanto che probabilmente Solone e Pericle, i grandi architetti della forma di governo democratica, tra il VI e il V secolo a. C. nella Grecia antica, storcerebbero il naso di fronte al funzionamento del sistema elettorale statunitense. Abituati alla democrazia diretta di Atene – maschilista come costume all’epoca -, i due politici greci si troverebbero spaesati di fronte alla democrazia indiretta in auge Oltreoceano. E anche il filosofo illuminista francese Jean-Jacques Rousseau, alfiere del patto sociale e della logica un uomo, un voto, ne avrebbe da ridire. Gli Stati Uniti si reggono su un altro principio, piuttosto singolare: non sempre chi ottiene più voti diventa presidente. Ne sanno qualcosa i dem Hillary Clinton, che nel 2016 si trovò la Casa Bianca sbarrata, nonostante la bellezza di 3 milioni di voti in più rispetto al rivale Donald Trump, e ancor prima di lei, nel 2000, Al Gore battuto da George W Bush, pur vantando uno scarto sull’avversario di 540mila consensi. La differenza Oltreoceano la fanno i Grandi elettori. E loro soltanto.
Ma che cosa sono? In pratica, ogni Stato d’America ha a disposizione un certo numero di delegati – più abitanti ha e più rappresentanti può vantare –, i cosiddetti Grandi elettori, per l’appunto. In totale, a fine spoglio, se ne contano 538. Succede quindi che i candidati alla Casa Bianca si sfidano in 51 competizioni per aggiudicarsi lo Stato e portarsi in dote il pacchetto relativo di delegati, questo sì a maggioranza relativa.Tecnicamente il sistema è denominato winner-take-all. Solo in Maine e Nebraska vige un modello misto. Il golden number per diventare Commander in Chief è 270: chi si aggiudica tale bacino di Grandi elettori, sul totale di 538, diventa presidente.
A distinguere dal resto del mondo democratico l’America non sono solo il voto indiretto e lo squilibrio sul peso elettorale dei singoli Stati. Fa eccezione anche la modalità pratica di espressione del diritto di voto. Scordiamoci l’Election Day, puro e semplice, con le urne aperte e le file ai seggi. Questa è solo una delle tre tipologie ammesse per votare. Ci si può certo mettere in coda il “martedì dopo il primo lunedì di novembre“ – è una legge del 1845, che risente dell’impronta agricola e religiosa degli Usa delle origini, a stabilire la giornata esatta della tornata elettorale –, oppure la preferenza si può esprimere per posta o tramite il cosiddetto early voting, ammesso nella quasi totalità degli Stati. In entrambi i casi si tratta di un voto anticipato. Da sempre Trump osteggia il voto ’per lettera’ in quanto, a suo dire, “i corrieri postali potrebbero perdere centinaia di migliaia di schede, anche di proposito“. Minnesota, Virginia e Dakota del Sud sono i Paesi della federazione dove i seggi (anticipati) sono stati attivati per primi, il 20 settembre. Le procedure di early voting terminano ovunque il 4 novembre, Solo in Colorado, Alaska, Washington e Hawaii si va avanti senza soluzione di continuità. In totale, compreso anche il voto per posta, i voti espressi superano i 50 milioni. Con un’incognita ulteriore: In ben 23 Stati l’arrivo della scheda compilata è ammesso anche dopo l’Election Day, a patto che il timbro postale sia stato apposto entro il 5 novembre. Sulla carta il 59% dei delegati potrebbe non essere assegnato durante la notte elettorale di martedì.