Roma, 5 novembre 2024 – Se a gennaio prossimo dovesse salire alla Casa Bianca, stavolta non da vice, Kamala Devi Harris sarebbe la prima donna nella storia eletta Presidente degli Stati Uniti, quella carica che è sempre stata considerata la più importante del pianeta. A quel punto la “donna più potente della Terra” sarebbe una persona di varie origini. Padre giamaicano, economista; madre indiana, oncologa. I genitori si sono conosciuti all’università di Berkeley che entrambi frequentavano, e le loro due figlie, Kamala è la maggiore, sono nate lì vicino, a Oakland, nella Bay Area dirimpetto a San Francisco.
La candidata democratica alla presidenza degli States, classe 1964, a dispetto delle sue multiorigini, per cui viene indicata da taluni come asioafroamericana, si definisce in un solo modo: americana. Eppure dalla mamma indiana – con la quale è cresciuta dopo che all’età di 7 anni ha visto il padre Donald andarsene da casa, vivendo un periodo anche a Montreal in Canada dove la madre Shyamala Gopalan insegnava – ha avuto i suoi due nomi derivati dalla mitologia induista: in sanscrito, Kamala significa loto ma è anche il nome con il quale viene talvolta appellata Laksmi, la dea rappresentata come quel fiore; e anche Devi è “dea”, la divinità che protegge i villaggi (pure la sorella Maya porta un nome originario del grande paese asiatico).
Da adolescente ha però frequentato sia una chiesa battista per neri sia il tempio induista e proprio per il colore della sua pelle ha vissuto una difficile integrazione razziale soprattutto negli anni della scuola materna dove gli alunni neri erano solo il 5% e vi si recava su uno scuolabus solo per bimbi di colore. E quando, passando i weekend con il padre che si era trasferito a Palo Alto, non poteva giocare con i suoi vicini i cui genitori non volevano avere nulla a che fare con il colore della sua pelle. Ma questo non ha impedito a Kamala crescendo di affermarsi negli studi e nella vita diventando, narrano le storie, uno dei personaggi più influenti del suo corso di laurea, della confraternita femminile alla quale aveva aderito e della squadra di dibattito, nucleo di pensiero molto influente nelle università americane.
Ottenuto il Bachelors of Arts in scienze politiche ed economia alla Howard di Washington – bandiera dell’educazione multirazziale -, ha poi studiati legge all’Hastings College of the Law di San Francisco e nella sua California ha iniziato la sua carriera scalando presto i vertici della professione e della politica: prima a servizio della difesa, quindi sostituta procuratrice, procuratrice distrettuale di San Francisco e infine procuratrice generale dello Stato dal 2011 al 2017 data in cui venne eletta al Senato per i democratici, partito all’interno del quale è nata.
Da allora, Kamala ha sostenuto i diritti delle minoranze, delle donne, ha caldeggiato la sospensione della pena di morte – che non ha mai chiesto nelle cause che ha condotto nelle procure – ed è poi stata invitata da Joe Biden nel ticket per la Casa Bianca, dove ora spera di tornare per sedersi nella Stanza Ovale (è già stata Presidente ad interim durante una degenza di Biden). La Harris vuole arrivare a guidare il Paese fidando delle proprie opinioni che esprime sempre in modo netto. “Sono contraria – dice - a qualsiasi politica che nel nostro paese neghi a qualsiasi essere umano l’accesso alla sicurezza pubblica, all’istruzione pubblica o alla sanità pubblica” rimarcando quel “pubblico” per ben distinguersi dal liberismo trumpiano. E batte sui temi dell’eguaglianza cercando di legare a sé il voto delle classi meno abbienti e discriminate: “Questo è il paese delle opportunità. Ogni bambina che ci osserva deve vedere che questo è un paese delle possibilità. Il nostro paese ha dato loro un messaggio chiaro: sognate con ambizione”.