Roma, 8 novembre 2024 – Humphrey Bogart, giornalista nel film L’ultima minaccia (1952), si rivolge al "cattivo" con un indimenticabile "è la stampa, bellezza": non si può fare nulla contro la notizia. Oggi si potrebbe rispondere "è la democrazia, bellezza" ai tanti che si lamentano dell’elezione di Donald Trump. Una slavina di voti popolari, la maggioranza dei "grandi elettori". Consenso diffuso, reale. Tante aspettative negli elettori, magari mal riposte ma che per il momento vanno accettate per quel "paradosso della democrazia" che Shmuel Eisenstadt segnala in un suo recente libro.
La democrazia è in costante mutazione, resiste a patto che i nuovi orientamenti che nascono accettino le regole del gioco. Trump ha vinto: gli statunitensi dovranno vigilare che il 47° presidente accetti le regole del gioco. Il che è come sperare che una tigre del Bengala affamata ignori un bue abbandonato nella giungla: se liberi la tigre, tocca al bue, o a te. Sarà uno psicodramma tutto americano?
Gli europei ne sono toccati, ma bisogna evitare, a tutti i costi, di immedesimarci in dinamiche politiche che non controlliamo e non viviamo. Gli europei sono abituati a considerare il "leader del mondo libero" come una variabile da giudicare, influenzare, sostenere, criticare, controllare. Purtroppo, non lo possono controllare, e lo hanno potuto influenzare solo in poche occasioni. Il presidente degli Stati Uniti d’America persegue gli interessi del suo Paese: una ovvietà, spesso ignorata. Tutti, dal primo – George Washington – all’ultimo appena eletto hanno sempre perseguito in primis l’interesse del loro Paese. La "dottrina Washington", enunciata dal fondatore degli Stati Uniti, addirittura poneva questo naturale atteggiamento alla base della politica estera del Paese.
Abbiamo, certo, avuto il secolo americano, il Ventesimo, e il ruolo preponderante degli Stati Uniti nella politica internazionale dal 1919 in poi, ma in fondo quell’antico principio, "America first", non è mai stato dimenticato, neppure da uno come Franklin D. Roosevelt, o come Harry Truman, per non parlare di John Fitzgerald Kennedy. Sarebbe quindi il momento che, mentre si augura a Trump il miglior lavoro per i prossimi quattro anni nel rispetto delle regole del gioco, la parte europea di quel 9% di mondo che chiamiamo "Occidente" provasse a pensare a se stessa non solo come interlocutrice e partecipe muta delle sorti della parte nord-americana, ma come attore nei confronti del restante 91% del mondo, che magari avrebbe anche piacere di essere considerato.
Questo è il paradosso tutto europeo, che non vogliamo affrontare: avere le potenzialità per essere un punto di riferimento alternativo di un "Occidente" che oggi diventa con Trump più isolazionista, ma rinunciare a svolgere questo ruolo. Forse ci vuole un nuovo "nazionalismo europeo", che ci renda davvero capaci di essere curatori dei nostri interessi. Siamo abbastanza omogenei, coesi, minacciati da entità di scala continentale che non amano questa povera Unione, per darci una nostra identità comune, una politica estera comune, una difesa comune; eppure siamo anche abbastanza ottusi per rifiutare di farlo, sperando che il prossimo leader altrui sia quello giusto. Il declino dell’Occidente è tutto europeo.