Roma, 7 novembre 2024 – Da europei "evoluti" potremo anche non capire e storcere il naso di fronte agli aspetti di più evidente rozzezza del trumpismo, ma di sicuro dobbiamo riconoscere che il suo messaggio è stato accolto e sostenuto in maniera radicata e profonda da milioni di Hillbilly di vecchio e nuovo impoverimento economico e sociale, di più antica o di più recente perdita di identità.
Che una fetta rilevante e maggioritaria di "ricchi" americani potesse votare per il tycoon era in qualche modo scontato, ma di sicuro non sarebbe bastata ad assicurargli né la vittoria né una vittoria così ampia. Sono stati, invece, gli Hillbilly (i "buzzurri sfigati" letteralmente, i diseredati della globalizzazione, per usare un eufemismo) a farlo trionfare. E, del resto, non è un caso (oggi più spiegabile di ieri) che Trump abbia scelto come vice-presidente quel J. D. Vance, che nel suo Hillbilly Elegy (Elegia americana) ha raccontato il dramma lavorativo e umano e il degrado morale e psicologico (figlio del primo) dei lavoratori bianchi (un tempo democratici, quando avevano un ruolo riconosciuto) della contea di Breathitt, nel Kentucky deindustrializzato dei Monti Appalachi.
Ma le classi immiserite (sì, anche immigrate) che hanno scelto Trump sono anche quelle delle devastate periferie metropolitane delle città americane che devono fare i conti quotidianamente con la violenza strutturale (intrisa nello stesso paesaggio urbano), con l’insicurezza epidemica, la precarietà economica, il deterioramento etico di un vivere ridotto a "spazzatura".
Trump che riesce a parlare e convincere queste masse è un paradosso, un ossimoro? Certamente. Ma è questa l’essenza di un populismo (anche consolatorio) che in troppi hanno archiviato troppo in fretta. Soprattutto, è la controprova dell’incapacità della sinistra mondiale di mettersi in connessione (e di offrire una prospettiva di riscatto reale) non solo agli impoveriti del vecchio ceto medio, ma anche agli immigrati integrati. La lezione americana, in fondo, è innanzitutto questa.