“Non ti lascerò un secondo in pace”. Sette parole, pronunciate il 7 marzo
2023, che avrebbero dovuto fermare tutto, accendere ogni allarme, costringere a guardare dritto negli occhi il pericolo. Sette parole che Filippo Turetta ha trasformato in un piano preciso, portato avanti con l’ossessione di chi non accetta di perdere il controllo. Non era amore, non era disperazione: era possesso. leri, la Corte d’Assise di Venezia ha detto la sua: ergastolo. Eppure quelle sette parole non hanno trovato spazio nel giudizio di primo grado. Lo stalking? Non riconosciuto. La crudeltà? Nemmeno. È rimasta solo la premeditazione, come se tutto fosse iniziato e finito con l’ultimo atto. Ma Filippo non si è limitato a uccidere:
ha distrutto . Prima Giulia, poi ogni possibilità che lei avesse di essere protetta, ascoltata, creduta. “Mi fai paura”.Giulia l’aveva detto, e il suo corpo lo sapeva prima ancora delle sue parole. Ogni minaccia, ogni messaggio, ogni silenzio carico di tensione le aveva già tolto il respiro prima che Filippo lo facesse davvero. La paura non mente, e non mente nemmeno chi la scatena. Filippo era già colpevole prima del femminicidio, ma la giustizia ha scelto di guardare solo la fine, ignorando il cammino di distruzione che l’ha preceduta.
Testa china. Sguardo fintamente dismesso anche il giorno della sentenza. Le mani libere. Senza manette.
Non lasciatevi e non lasciamoci ingannare. Filippo Turetta è il volto del narcisismo più subdolo, quello che non grida ma erode, che si nasconde dietro una maschera di normalità fino a che la maschera non cade. Non ha mai lasciato Giulia in pace, proprio come aveva promesso. Non lo ha fatto nella vita, non lo fa nemmeno ora, con una sentenza che non riconosce la crudeltà delle sue azioni. Come se l’orrore potesse essere contenuto in un’unica parola: ergastolo.