Un giovane accademico di formazione liberale, di fronte all’abuso del termine “populista”, è solito sostenere che non ne è difficile l’identificazione. Coincide con colui che pensa di risolvere le esigenze di consenso politico e di coesione sociale con il sistematico ricorso alla spesa pubblica. Vogliamo migliorare la scuola, l’università o la sanità? “Basta” aumentare i rispettivi fondi di dotazione senza interrogarci preventivamente se non sia il caso di immaginare nuovi moduli organizzativi per porre rimedio alle manifeste inefficienze.
Marco Biagi affermò poi, in materia di lavoro, che nessun incentivo fiscale (spesa!) può sostituire i disincentivi normativi. Ecco, il programma von der Leyen da un lato sembra ridimensionare la tradizionale attenzione europea per la sostenibilità dei bilanci nazionali e, dall’altro, rinnova la fiducia nei mercati finanziari affidando però loro la raccolta di risparmio privato per sostenere competitività e transizione ecologica. Non cambia il Green deal, a parte un troppo vago cenno alla neutralità tecnologica che, se davvero praticata, metterebbe in discussione molte decisioni del trascorso quinquennio.
La novità consiste piuttosto nella volontà di assorbire preoccupazioni e proteste per il declino europeo che si è prodotto rispetto ai grandi concorrenti Usa e Cina ricorrendo a ulteriori fondi per “compensare” i vincoli e i sovracosti della transizione ecologica. Insomma, si preferisce il debito pubblico alla possibilità di rivedere le discipline che hanno penalizzato molte industrie europee e di affidare gli obiettivi di decarbonizzazione alla innovazione e alla ricchezza che queste, se liberate, potrebbero produrre. È come se il Pnrr abbia fatto a tal punto scuola da renderlo uno strumento permanente. Ma l’eccesso di debito non rafforza la sovranità europea rispetto alle altre grandi aree. Ne accentua invece la dipendenza.