La manovra numero tre del governo Meloni ha lo stesso pregio della manovra numero due e della manovra numero uno: non scassa i conti pubblici e rispetta vincoli europei sempre più stretti. Non è poco, anzi. Come la manovra numero uno e la manovra numero due, la manovra numero tre non contiene, invece, grandi slanci e non indica con chiarezza quale direzione di marcia la Melonomics abbia in testa per il Paese.
Mancanza comprensibile per la manovra numero uno (sostanzialmente ereditata dal governo Draghi), un po’ meno per la manovra numero due, sorprendente per la manovra numero tre e per un governo altrimenti volitivo: sulla giustizia, per esempio, la direzione è stata indicata chiaramente dall’inizio della legislatura e la strategia perseguita senza cedimenti.
La stessa cosa si può dire per le politiche migratorie e i richiedenti asilo. Non è così, invece, per la politica economica, sulla quale hanno suggerito molto di più le sgrammaticature sul risiko bancario e la golden power o certe note stonate sulla libertà d’iniziativa economica, archiviate prima di diventare parte della legge di Bilancio.
Il pregio di non avere scassato i conti, però, dovrebbe essere il punto di partenza per riforme che si occupino di crescita, produttività, spesa pubblica e sprechi, politica industriale. Ricordare che la realtà ha ridotto la tronitruante, annunciata, riforma delle pensioni a uno squittìo, basta per per lodare la stabilità. Ma fa bene chiedersi anche se le opposizioni avrebbero potuto lanciare sfide più mature rispetto a slogan da assemblea di istituto con denominatore l’aumento della spesa pubblica. O domandarsi – a fronte di due rivoluzioni in corso, green e digitale, guerre globali, e l’imprevedibiltà della futura presidenza Trump – se un governo politicamente così solido come quello italiano, benedetto dai mercati e dallo spread –, non potesse giocarsi qualche ambizione in più.