Nell’epoca dello scontento, il decisionismo in politica può diventare un’arma a doppio taglio. Per chi la usa. E forse sta in questa preoccupazione - la potenziale perdita di consenso - il motivo della grande prudenza con cui il governo Meloni si sta muovendo nei suoi primi mesi.
Dal limite all’uso del pos al decreto rave, dai migranti al caro benzina, le manovre di governo più discusse e foriere di polemiche - anche, va detto, dentro la maggioranza - hanno finito per essere presto riviste, aggiustate, ritoccate, ammorbidite, ripensate. Una modalità che mal si concilia con l’approccio politico e mediatico - così allergico ai compromessi - che ha segnato l’ascesa di Giorgia Meloni fin dai tempi in cui il suo partito valeva il 4 per cento. Lei, anche ieri sera, è tornata ad arringare i suoi alla convention di Fratelli d’Italia, a Milano, ribadendo la volontà ambiziosa di cambiare il Paese e di liberarlo dai suoi più antichi vizi, tra fisco, giustizia, burocrazia. "O si fa l’Italia o si muore", ha detto citando Garibaldi e dandosi un orizzonte temporale di almeno cinque anni. Una rivoluzione copernicana, sulla carta, di cui ancora non si vede però l’ossatura.
Se l’inizio di legislatura è stato sostanzialmente (e inevitabilmente) consacrato alla Finanziaria, è un fatto che l’approccio dell’esecutivo è stato finora tutt’altro che dirompente. Eppure questa sarebbe ancora una fase di assoluta luna di miele con il Paese, e tutto gioca ancora a favore del governo: la grande maggioranza elettorale con cui è stato consacrato alle urne poco più di tre mesi fa, un’opposizione latitante se non proprio inesistente, un consenso che anche nei sondaggi vede la premier in costante crescita. Il punto è dunque lo stile di governo, non il merito ma il metodo: al di là che fossero buone o cattive, le scelte di Meloni fino ad oggi non sono riuscite ad andare davvero a segno, per lo meno con la potenza anche comunicativa con cui erano state annunciate. Forse con troppa avventatezza, viene da dire adesso.