Giovedì 9 Gennaio 2025
LEO TURRINI
Editoriale e Commento

Rino era per tutti ‘il pugilato’

Fu Tommasi a far conoscere ad una generazione di italiani la furia di Mike Tyson

Rino Tommasi nel 2006 (Aldo Liverani)

Rino Tommasi nel 2006 (Aldo Liverani)

Roma, 8 gennaio 2025 – È una cosa che debbo confessare ai miei quattro lettori, in morte di Rino Tommasi, spentosi a 90 anni dopo una vita generosamente spesa a raccontare i grandi dello sport, su carta e in tv.

Ebbene, non c’è scribacchino che non sogni di essere identificato con il Campione che descrive. E nessuno ci riesce: non fu Gianni Brera a inventare Rivera, non è stato Adriano De Zan a idealizzare Pantani e Pietro Mennea sarebbe stato Pietro Mennea anche senza le urla concitate del maestro Paolo Rosi.

Per la semplice ragione che Ettore e Achille, alla fine, sono così nobili e grandi che quasi ti dimentichi di Omero.

Eppure, questa malinconica legge ha avuto una eccezione: Rino Tommasi! E non per il tennis, dove insieme a Gianni Clerici e a Ubaldo Scanagatta ha avuto il merito di tutelare la passione popolare quando l’assenza di italiani competitivi minacciava di ridurre la disciplina della racchetta ad una nicchia elitaria.

Per la semplice ragione che Ettore e Achille, alla fine, sono così nobili e grandi che quasi ti dimentichi di Omero.

No. Rino Tommasi, veronese di origine ma cresciuto a San Benedetto del Tronto, ha realizzato il sogno di moltitudini di giornalisti perché lui “era” la boxe. Il pugilato. La Nobile Arte. Senza il suo intuito, l’ultima Italia forse felice, quella dei vituperati Anni Ottanta, non sarebbe stata sedotta dal finale epico di una cultura dimenticata. La cultura del ring.

Fu Tommasi, per capirci, a far conoscere ad una generazione di italiani la furia di Mike Tyson. Rino in gioventù aveva organizzato riunioni pugilistiche, aveva allestito in prima persona la storica rivincita fra Nino Benvenuti e Sandro Mazzinghi. E quando, due decenni dopo, gli capitò tra le mani una videocassetta del giovane Iron Mike, beh, non esitò: andò da Silvio Berlusconi, all’epoca “solo” proprietario di Canale 5, e lo convinse ad acquistare in esclusiva per l’Italia i match del terribile giovinastro.

Chi c’era, lo sa. Quella fu una sorta di rivoluzione a suon di cazzotti in diretta: il “personalissimo cartellino” di Tommasi, la sua sentenza dopo ogni round, diventò parte del linguaggio comune, era un tormentone negli sketch dei comici, insomma Rino aveva inventato un linguaggio e si era identificato, lui sì!, con le imprese che narrava. Tyson, Hagler, Hearns, Leonard, Duran e Rino: indivisibili e imprescindibili.

So che retorica impone di affermare, a questo punto, che ovviamente tutto è cambiato e forse si stava meglio quando quando si stava peggio e bla bla bla. Di solito non è vero, ma stavolta sì, nel caso di Rino sì. Ci incontrammo per la prima volta ad una amichevole estiva tra Sambenedettese e Juventus, 1987: lui era già un idolo, ma aveva l’umiltà di chi non ha bisogno di complimenti. E poiché, parafrasando Antonello Venditti, certi amori professionali fanno dei giri immensi e poi ritornano, ecco, nel 2008 alla Olimpiade di Pechino mi venne a cercare perché voleva seguire accanto a me la finale di lotta greco romana nella quale era impegnato l’imolese Andrea Minguzzi. Gli dissi: accetto solo se stili il tuo personalissimo cartellino.

Si mise a ridere. Ma stette al gioco. Minguzzi vinse l’oro e i cinesi non capirono mai perché alla fine del match ci abbracciammo forte forte.

Trenta pari, Rino.